Il Punto – Bosnia 2018

Sono sull’autobus che da Sarajevo mi porta a Belgrado, catapultandomi da un progetto all’altro nella mia avventura insieme a Collective Aid nei Blacani e dopo essere tornato per un paio di settimane in Bosnia è arrivato il momento di fare il punto su tutto quello che è successo nel 2018 in questo paese cercando di raccogliere tutte le informazioni accumulate nel corso dei mesi.

Tornare a Sarajevo è stato molto emozionante. Incontrare di nuovo alcune delle persone con cui ho lavorato e condiviso molto negli ultimi tempi mi ha fatto un immenso piacere, un po’ come tornare a casa dopo una breve pausa. Riprendere il lavoro nel campo è stato molto motivante ma da subito molto intenso e faticoso per la mole di lavoro e l’aumento di ospiti all’interno della struttura; oltre al lavoro in cucina siamo stati coinvolti in parte anche nelle attività di intrattenimento durante il giorno cercando di offrire la possibilità di passare il tempo anche facendo un po’ di sport e giocando a calcio o cricket.

Questa volta vorrei però cercare di dare un’idea generale di quello che è successo all’interno dell’intero paese nel corso del 2018, riportando molte delle informazioni contenute in un piccolo libro appena pubblicato che contiene un report molto dettagliato sulla situazione attuale: “People on the Move in Bosnia and Herzegovina in 2018: stuck in the corridors to the EU” di Gorana Mlinarevic e Nidzara Ahmetasevic, giornalisti, attivisti e volontari che hanno girato il paese per documentare la situazione. Probabilmente sarà un articolo un po’ lungo e con molte informazioni magari anche un po’ noiose, ma sono sicuro che possa essere un modo molto comodo e utile per capire come si stiano evolvendo le cose in Bosnia ed essere aggiornati.  

Contesto e registrazione

Come ho già accennato in un precedente articolo, la Bosnia presenta diverse peculiarità sia dal punto geografico, data la posizione che oggi la rende centrale all’interno della rotta balcanica, sia per quel che riguarda la sua storia recente a partire dalla guerra civile degli anni ’90 fino ai giorni nostri. Proprio per via della sua disfunzionalità politica e logistica dovuta al contesto post-conflitto, lo stato non risulta ancora in grado di rispondere in maniera adeguata alle emergenze umanitarie (si pensi alla crisi seguita alle inondazioni del 2004) e dato che è formalmente stato negli ultimi anni sotto il semi-protettorato della comunità internazionale, la presenza di agenzie internazionali sul territorio è particolarmente significativa e sono ancora molti gli attori protagonisti dei processi decisionali a livello statale, fatto che contribuisce al malfunzionamento della risposta alle crisi sul territorio. Queste considerazioni, oltre al fatto che la Bosnia risulta ad oggi una delle nazioni più corrotte e instabili in Europa, hanno portato l’unione europea ad affidare i propri fondi (tra i 7 e i 10 milioni di euro) per affrontare la crisi migratoria alle agenzie ad essa collegate (UNHCR, UNICEF, IOM) invece che direttamente allo stato. Questa decisione potrebbe essere contesta, sostenendo che le istituzioni statali hanno vincoli di trasparenza più rigidi rispetto alle agenzie internazionali oltre al fatto che l’assunzione di responsabilità nella gestione dei fondi avrebbe potuto portare ad un miglioramento delle funzionalità di uno stato che ancora fatica ad uscire da un periodo di crisi prolungato. Nonostante queste considerazioni, l’UE ha deciso di agire secondo altri principi e questo ha portato ad una situazione in cui è sempre possibile rimpallare responsabilità e colpe da un attore all’altro e ciascuno di essi ha delle scuse per la proprio inadempienza: per capirci, lo stato sostiene che essendo i fondi nelle mani delle agenzie internazionali questo non gli permette di svolgere i compiti che effettivamente gli spettano in modo adeguato mentre d’altro canto le agenzie internazionali lamentano le inadempienze e l’incapacità dello stato, che per legge è responsabile della risposta alla crisi attraverso i suoi ministeri, di creare le condizioni adeguate per collaborare e utilizzare le risorse. A tal proposito risulta utile ricordare che dal 2004 UNHCR ha passato la responsabilità della gestione delle procedure di richiesta di status di rifugiato allo stato, affermando, dopo aver collaborato alla creazione e all’adozione dell’apparato legislativo in tale campo, che il governo della Bosnia possiede un sistema nazionale di asilo efficiente.

Per quanto riguarda i numeri della crisi, a novembre 2018 il numero di persone di cui è stato registrato l’ingresso nel paese era pari a 23’123 delle quali 21’759 hanno espresso l’intenzione di richiedere asilo politico in Bosnia e 1’356 hanno effettivamente completato la richiesta. I numeri presentati dal governo sembrano dunque indicare tre categorie di persone presenti sul territorio: chi è entrato irregolarmente nel paese, chi ha espresso intenzione di richiedere asilo e chi effettivamente ha proceduto con la richiesta. Sia il governo che le agenzie internazionali spiegano questo grosso divario tra intenzione espressa ed effettiva richiesta di asilo come indice del fatto che la maggior parte delle persone presenti sul territorio sono solamente in transito. Ma la realtà è che le cose potrebbero non essere così semplici come si vuole far credere. Molte delle persone che si incontrano nei campi e fuori dal “sistema” hanno con sé solamente la carta in cui hanno espresso intenzione di richiedere asilo, nella maggior parte dei casi scaduta (scade dopo 14 giorni, periodo entro il quale il richiedente deve procedere con la richiesta vera e propria) perché il personale degli uffici si rifiuta o non collabora nel procedere alla formalizzazione della richiesta. Allo scadere dei 14 giorni, la persona si ritrova nella condizione in cui ne può procedere con la richiesta di asilo, ne risulta essere un’entità legale all’interno del territorio bosniaco. In questo modo i numeri possono essere facilmente manipolati per esprimere qualcosa di ben lontano dalla realtà e al tempo stesso le persone si trovano in una situazione di pericolo, soggette a condizioni di illegalità e alla realtà del traffico di esseri umani. Uno dei fattori fondamentali che porta una grossa parte di queste persone in questo limbo di illegalità ed impossibilità di procedere alla legalizzazione (mettiamo da parte per un attimo l’impossibilità di accedere agli uffici di registrazione fuori dagli orari lavorativi, nei weekend, durante le festività, piuttosto che la difficoltà di comprendere cosa è scritto sui documenti scritti solo in lingua del posto, o ancora l’assenza di servizi informativi) è il fatto che la condizione necessaria per procedere alla richiesta di asilo nei 14 giorni a disposizione dall’entrata nel paese è di fornire un indirizzo di residenza in Bosnia e dato l’alto numero di persone presenti e la difficoltà di riuscire a trovare un posto in cui registrarsi regolarmente in un tempo così ristretto, questo ci riporta al punto inziale ovvero lo scadere dei 14 giorni e il passaggio al limbo legislativo.

Per quanto riguarda l’assistenza legale, è previsto dalla legge sull’asilo che ad ogni persona che esprima l’intenzione di richiedere asilo nel paese sia fornita assistenza gratuita. Assodato che non esiste al momento un’istituzione statale che si prenda carico di questa funzione nonostante prevista dalle leggi dello stesso stato, le persone che richiedono assistenza la ricevono da una grossa ONG bosniaca che si occupa di questioni legali, Vasa Prava, partner di UNHCR nel paese. L’associazione si occupa di richieste di asilo ormai da anni ma nonostante questo è rilevante far notare che nonostante fosse a conoscenza di quanto la procedura di richiesta di asilo sia complicata e mostri evidenti falle, nel corso del 2018 non ha mai pubblicato nessun tipo di report a proposito delle difficoltà di accesso per i migranti alla richiesta di asilo o alle difficoltà legali riscontrate da questi ultimi ogni giorno, cosa che invece ci si aspetterebbe da un’organizzazione della società civile che tratta diritti umani e protezione da violazioni e violenza. Tutte le informazioni raccolte da quest’ultima sono state trasferite solamente ad UNHCR, sponsor principale dell’ONG, che a sua volta ha reso pubblico quanto ritenuto rilevante.

Situazione sul campo

Cerchiamo ora di capire invece come si sono sviluppate le cose nelle diverse città protagoniste della questione migratoria facendo il punto sulla situazione alla fine del 2018.

Sarajevo

Si dall’inizio dell’anno in città erano presenti molte persone che hanno da subito ricevuto l’aiuto della popolazione impegnata nella distribuzione non organizzata di cibo, coperte e altri beni oltre che ad offrire anche riparo nelle proprie abitazioni. Intorno ad aprile circa 300 persone vivevano in uno dei parchi della città mentre era disponibile un’unica struttura ufficiale sul territorio, il centro Delijas, con una capienza di 150 posti ma situato in una zona non collegata al servizio di trasporti e lontana da negozi o altre strutture (la stazione di servizio più vicina dista 12km). In quel periodo UNHCR e IOM sono riuscite a fornire stanze in ostelli solamente ad alcune persone considerate come “vulnerabili”, spesso chiedendo il sostegno alle associazioni di volontari e ai cittadini presenti sul territorio per riuscire a raggiungere più persone. Questo approccio non sistematico ha però messo in condizione di vulnerabilità altri soggetti che non sono riusciti a ricevere il sostegno adeguato o gli stessi individui considerati vulnerabili: una donna è stata, ad esempio, allocata in una stanza di ostello con due uomini mentre il marito è stato lasciato in strada o, ancora, molte persone hanno contratto scabbia e pidocchi nei luoghi assegnati proprio da UNHCR. Tra maggio e giugno 250 persone sono state spostate in una struttura a Mostar ed il campo non ufficiale nel parco della città è stato evacuato. In ottobre è stato aperto il centro di transizione di Usivak, a circa 15 km dalla città, struttura precedentemente utilizzata come caserma militare, dove ho lavorato in questi mesi insieme a Collective Aid. Come già vi ho detto il campo ospita circa 500 persone ed è gestito da IOM e le condizioni di vita all’interno del campo si possono definire scarsamente dignitose, con molte persone costrette a dormire in letti a castello posti all’interno di grossi capannoni dove il riscaldamento non può che essere scadente e l’assenza di privacy e spazio personale è importante. Durante l’estate presso la stazione dei treni è cominciato un servizio di distribuzione di cibo gestito dai volontari dell’associazione che si è poi spostato un po’ più lontano dal centro città per questioni di sicurezza.

Mostar

Circa 250 persone, prevalentemente famiglie, vivono nel campo di Salakovac a Mostar gestito dal ministero della sicurezza e dal ministero per i diritti umani e i rifugiati. Il cibo è fornito dal personale della Croce Rossa locale mentre altre associazioni svolgono attività ricreative e sostegno psicologico (UNICEF, BH women e World Vision). La sicurezza è affidata allo stato e sono sempre presenti due guardie civili non armate anche dopo le 16, orario in cui tutte le altre associazioni lasciano il campo essendo terminata la giornata lavorativa. Il campo è molto calmo e le persone che lo abitano non lamentano nulla di particolare se non il fatto che non ci sia nulla da fare durante il giorno e nel pomeriggio in modo particolare. La struttura era un campo anche in precedenza e le famiglie dispongono di piccole case con ampie stanze bagni e cucine.

Bihac

Per via della vicinanza della città al confine croato molte persone si sono trovate a fermarsi in questa zona in attesa di riuscire ad attraversare il confine ed entrare nell’unione europea e il sostegno iniziale è arrivato anche in questo caso dalla popolazione locale. Il dormitorio studentesco abbandonato di Dacki e il parco limitrofo (Borici) sono stati poi designati dal sindaco della città come zone in cui alloggiare temporaneamente le persone presenti che da poche centinaia sono diventate 1200 alla fine dell’estate. Le condizioni di vita sono state particolarmente difficili con problemi legati a diversi ambiti, dalla sicurezza all’igiene fino al cibo e molte persone in condizioni di vulnerabilità (anziani, minori non accompagnati, malati) sono state lasciate a vivere in queste condizioni proibitive per diversi mesi. In molti casi i residenti di quelli che difficilmente possiamo definire veri e propri campi hanno lamentato abusi da parte della polizia e del personale di sicurezza senza ricevere attenzione nonostante le lamentele e le richieste di aiuto.

Tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate altre 100 persone vivevano in una pensione abbandonata vicino al fiume ma sono state successivamente evacuate e fatte spostare al dormitorio nonostante le condizioni di minima sicurezza del luogo e la presenza di trafficanti e altre attività criminali. Per avere un’idea della questione molte delle persone presenti sul territorio riferiscono che il prezzo per riuscire a farsi trasportare da Sarajevo a Trieste è di 4500€; queste condizioni fanno si che molti diventino vittime del traffico di esseri umani nonché di sfruttamento lavorativo dal momento che è chiaro che molti non hanno una disponibilità economica per affrontare una spesa del genere. Spesso accade che molti minori vengano assoldati dai trafficanti per “reclutare” altri clienti ricevendo in cambio la possibilità di essere trasportati “gratuitamente”. Molti altri provano ad attraversare il confine per conto proprio ma risulta chiaramente più complicato.

 L’hotel Sedra è un’altra struttura, sempre all’interno della città di Bihac, utilizzata dalla fine di liglio per ospitare famiglie e persone vulnerabili; il centro è gestito da IOM con l’aiuto di altre organizzazioni internazionali. Sia per quanto riguarda questa struttura così come in generale per il resto del paese i bambini non hanno avuto la possibilità di frequentare le scuole locali almeno fino a dicembre, fatto che ha contribuito, secondo alcune ricerche di UNHCR, a renderne ancora più problematica la situazione, tanto che un bambino su due mostra segnali di depressione o profondo sconforto, uno su tre ha problemi di sonno o incubi e uno su quattro problemi legati a rabbia, paura, ansia e irritabilità.

Nel mese di novembre è stata aperta un’altra struttura per ospitare migranti nella cittadina, si tratta di una ex fabbrica che in teoria avrebbe dovuto ospitare fino a 500 persone ma che in realtà ha visto vivere al suo interno fino a circa 200 persone in tende e container. Trattandosi di una struttura industriale, BIRA non risponde in modo adeguato agli standard solitamente richiesti per un campo profughi e sono state portate all’attenzione dei volontari e delle associazioni problemi legati al trattamento estremamente poco professionale del personale di sicurezza accusato di eccessi di violenza nei confronti dei residenti.

Velika Kladusa

Nella cittadina di Velika Kladusa, anch’essa nei pressi del confine croato, tra febbraio e marzo molte persone hanno cominciato a popolare il parco della città con tende finchè il comune non ha deciso di evacuare il parco e spostare le persone in un’area nei pressi dello stadio comunale dove questi ultimi potessero stabilirsi con le proprie tende. Il comune ha fin da subito fornito elettricità, personale di sicurezza e pulizia e insieme ad IOM ha installato dei bagni chimici mentre IOM ed EMMAUS insieme alla Croce Rossa sono stati incaricati della distribuzione di cibo che però è sempre risultata irregolare se non addirittura assente in certi giorni. In questo campo autogestito medici senza frontiere e associazioni di volontari internazionali sono stati e sono il supporto principale alle persone in transito. Il campo è stato poi evacuato nel mese di novembre sotto la pressione dell’opinione pubblica e più di 600 persone sono state spostate in una struttura industriale dove non è stato fornito nessun tipo di attività di sostegno agli ospiti e le condizioni di vita sono risultate fin da subito molto difficili e degradanti. Oltre a ciò, all’interno della struttura non è prevista una zona dedicata ai minori non accompagnati che pure sono presenti.

Kljuc e Velecevo

L’atmosfera nella regione di Una Sana, a nord ovest dello stato e al confine con la croazia, è molto cambiata durante l’estate, passando dall’essere particolarmente accogliente all’essere addirittura pericolosa per le persone in transito o in attesa di attraversare il confine, in larga parte per via dell’atteggiamento delle autorità locali e della polizia. Anche la libertà di movimento all’interno della regione è stata limitata, tanto che le persone non possono spostarsi da Bihac a Velika Kladusa, scelta che ha portato a numerose violazioni dei diritti umani in campo legale come ad esempio la pratica di far scendere da autobus e treni i migranti in arrivo da Sarajevo per forzarli a ritornare indietro (a proprie spese) per evitare l’arrivo di nuove persone nella regione. Alcune persone sono state respinte al di fuori della regione, nei pressi della cittadina di Kljuc. Velecevo, allo stesso modo, è diventata una sorta di frontiera interna dove la polizia ferma e respinge i migranti in transito ufficialmente “per gestire i flussi migratori”. Il luogo dove i migranti vengono fermati e lasciati dalla polizia non offre nessun tipo di riparo e solo la Croce Rossa e alcuni volontari internazionali offrono supporto alle persone presenti sul luogo. Nell’area di Velika Kladusa le persone che si sono offerte di ospitare migranti nelle proprie abitazioni sono state minacciate di multe e sanzioni da parte delle autorità in un clima che rende impossibile collaborazione e solidarietà.

Ci sarebbero ancora mille informazioni da riportare, numeri da richiamare e riflessioni da proporre ma sono sicuro che tutte queste righe siano già abbastanza per riuscire a chiarirsi un po’ le idee su quello che ci sta succedendo intorno a davvero pochi chilometri di distanza. Penso davvero che riuscire ad informarsi e avere lo stimolo, la voglia e l’impegno necessari per farlo in modo adeguato sia lo strumento migliore per andare al cuore di una faccenda ed evitare di costruire falsi miti ben lontani dalla realtà. Ogni giorno che passo qui tra Bosnia e Serbia a contatto diretto con la realtà della questione migratoria, imparo qualcosa di nuovo, scopro sfaccettature che non prima d’oggi non avevo considerato e conosco situazioni prima sconosciute sia per quanto riguarda la situazione politica e il contesto dei paesi in cui mi trovo, sia per quel che invece riguarda le persone con cui sto lavorando e le esperienze che queste si trovano ad affrontare. Spesso mi capita di ascoltare o parlare con persone che si costruiscono un’opinione a partire da alcuni slogan completamente vuoti di significato e mi stupisce scoprire che più siamo impreparati su un argomento più siamo propensi a sostenere ad ogni costo la nostra visione delle cose, senza considerare la possibilità che le cose stiano diversamente. Probabilmente è per via della paura che discutere con qualcuno che ha qualcosa da dirci e ne sa più di noi ci possa mettere di fronte alla nostra inadeguatezza o impreparazione. Forse dovremmo cercare di uscire dall’ottica secondo la quale non conoscere, o conoscere meno di qualcun altro, sia qualcosa di negativo, da nascondere quasi come fosse una debolezza, anche a costo di difendere strenuamente posizioni fondate sull’assenza di conoscenza, così da cominciare a considerare in senso positivo il confronto, il dialogo, il fatto che qualcuno abbia qualcosa da insegnarci. Mi viene da pensare che questo abbia delle profonde ripercussioni sul mondo in cui viviamo, sulla politica che ci riguarda tutti i giorni, perché probabilmente la paura di sembrare inadeguati e di passare per qualcuno che non sa le cose ci porta ad alzare la voce per coprire quella di chi invece non deve nascondersi perché effettivamente sa di cosa sta parlando e di conseguenza a ricercare nel mondo della politica un rappresentante che sia in grado di gridare più forte di tutti, di non farsi insegnare niente da nessuno, che non ha bisogno di discutere delle cose e ascoltare le opinioni degli altri, un rappresentante che in questo modo giustifichi il nostro comportamento quotidiano.

Spero che queste righe possano essere un modo per metterci in contatto, creare una rete, comunicare e scambiare informazioni per creare o accrescere quella che viene definita coscienza collettiva perché credo davvero che gli individui possano fare la differenza con le proprie azioni, siano esse un lavoro vero e proprio sul campo o anche solo uno scambio di informazioni. Ho scelto di smettere di credere che una goccia in un oceano non cambi assolutamente niente, perché il cambiamento all’interno di un gruppo di persone nasce dall’azione dei singoli individui e si sviluppa attraverso la condivisione comunitaria e se state leggendo queste righe vuol dire che anche voi fate parte insieme a me di un cambiamento.

Spero di riuscire a scrivere nei prossimi giorni per raccontarvi al più presto del nuovo progetto a cui sto lavorando con l’associazione qui a Belgrado!

A presto,

Davide

Un’altra faccia della medaglia

È ormai più di un mese che sono partito ed è arrivato il momento di provare a fare il punto della situazione.

Prima di tornare a parlare del lavoro che sto continuando a fare con Collective Aid qui in Bosnia e dei piani per i prossimi mesi vorrei però condividere con te che stai leggendo queste righe qualche pensiero un po’ più personale, legato all’esperienza che sto facendo, alle persone che ho incontrato e con cui vivo a stretto contatto e a tutto ciò che il contesto in cui mi trovo mi porta a pensare.

Molto spesso non è semplice riuscire a spiegarmi quello che provo e a volte mi ci vuole del tempo per riuscire a capire il disegno o le motivazioni che si nascondono dietro le sensazioni che mi accompagnano durante le mie giornate; per questo motivo provo a buttare giù qualche riga per cercare di fare un po’ di chiarezza.

Partire per un’esperienza di volontariato come quella che sto vivendo qui a Sarajevo ti fa precipitare in una realtà completamente nuova, ricca di stimoli che non sei abituato a ricevere e che di conseguenza portano a sensazioni e reazioni che spesso non si è in grado di gestire al meglio.

È qualcosa di diverso dall’essere semplicemente lontano da casa, è come se molti dei punti di riferimento su cui sei abituato a fare affidamento cambiassero, alcuni lentamente e altri in un istante, e ti ritrovassi a cercare, un po’ a tentoni, dei nuovi appigli su cui costruire una nuova quotidianità. Questo cambiamento mi ha portato, prima in Grecia e ancor più qui in Bosnia, a rimettere molto in discussione me stesso, le mie convinzioni e le mie idee.

Nell’ultimo mese mi sono ritrovato spesso faccia a faccia con me stesso, immerso in una conversazione talvolta scomoda, spoglia di inutili convenevoli, libera da condizionamenti esterni. Una conversazione intima, complicata, dura da affrontare, in cui sono riuscito a pormi interrogativi che se ne stavano nascosti da qualche parte da molto tempo e a darmi una risposta o quanto meno cominciare a rifletterci. Al tempo stesso questo tuffo profondo verso l’interno mi ha inevitabilmente portato a pormi delle domande che invece mai mi sarei aspettato e che mi hanno lasciato un po’ perplesso e un po’ stupito.

Giorno dopo giorno l’ambiente in cui vivo, le persone con cui sono a contatto e le forti esperienze della quotidianità mi hanno permesso di spostare, uno ad uno, gli strati esterni e a liberarmi di tutti quei gusci che, un po’ per proteggerci ma soprattutto per via dei condizionamenti cui siamo sottoposti, ci portano a costruire una persona e una personalità diversa da quella che siamo veramente.

Non è facile.

Non è facile davvero capire che alcuni atteggiamenti, alcuni modi di pensare e agire, sono frutto di una costruzione esterna che spesso non ci accorgiamo nemmeno di mettere in atto; e quando ti trovi spogliato di questi strati, a contatto con ciò che sei veramente, nudo davanti a una parte di te che spesso, consciamente o inconsciamente, finisci con il nascondere, in quel momento un insieme di emozioni si affacciano e si mischiano perché è spaventoso, incerto e confuso ma allo stesso tempo sincero ed emozionante.

Il prezzo da pagare per questa sorta di analisi è dato da momenti difficili in cui ti senti un po’ perso in un mare di pensieri, in cui non sai bene chi sei o dove stai andando, ma se considero quello che si guadagna in termini di consapevolezza e conoscenza di se stessi posso dire che ne vale senz’altro la pena.

Sono certo che tutto questo non potrebbe succedere se non mi trovassi proprio dove sono ora e a contatto con le persone con cui sto condividendo questa esperienza, con le quali si crea un legame difficile da capire, un legame forte che non si è abituati a gestire perché frutto non di una lenta conoscenza graduale, ma della condivisione diretta di esperienze profondamente intense. In pochi giorni ti ritrovi a condividere emozioni e sensazioni, problemi e gioie, momenti di lavoro intenso e di rilassatezza in un contesto così particolare da instaurare un legame veramente profondo con persone che ancora non conosci ma con le quali vivi momenti di intimità inaspettati, senza filtri.

Questi giorni sono stati una continua altalena di emozioni, un alternarsi incessante di momenti di estrema gioia e di sconforto profondo, di paura, crisi, felicità e realizzazione, perché il lavoro nel quale ci troviamo immersi passa in un attimo dalla banalità dell’atto del cucinare alla consapevolezza del luogo in cui ti trovi e delle persone con cui sei a contatto; così, mentre tagli l’ennesima cipolla, in un attimo ti rendi conto che ti trovi in un container all’interno di un campo profughi in cui centinaia di persone sono intrappolate in un limbo di incertezza e quindi ti fermi a guardare proprio quella cipolla e non capisci più bene se stai semplicemente tagliando della verdura o provando a cambiare qualcosa che non funziona in questa situazione così complicata;

così, dopo una lunga mattinata di preparazione in cui hai camminato dalla cucina al deposito, tagliato, tritato, lavato, pulito, fatto un po’ di stretching per quella schiena che ogni tanto si fa sentire, spostato contenitori e contenitori di cibo, preparato piatti e cucchiai per la distribuzione e distribuito 450 porzioni di un pranzo che ti fa sentire davvero soddisfatto del lavoro che hai fatto, sei pronto a consegnare l’ennesimo piatto.

La persona che ti trovi davanti lo guarda, con uno sguardo che tradisce tutta la sua frustrazione, la desolazione, la difficoltà di una vita che non possiamo nemmeno immaginare, e decide di non prenderlo.

E se ne va, senza prendere quel piatto in cui tu hai messo tutto quello che sei riuscito a tirare fuori da te stesso, il lavoro delle tue mani, il tuo tempo, la tua volontà di provare a fare la differenza, la voglia di essere parte di qualcosa per qualcuno. In quel momento ti crolla il mondo addosso, a te che di problemi ne hai davvero pochi, e tutta l’energia e la gioia delle ore passate, pure emozioni positive, lascia spazio con una semplicità disarmante ad un doloroso sconforto.

Allo stesso modo però, dopo aver finito la distribuzione, ti si avvicinano padre e figlio, che con la massima serenità ti guardano e ti ringraziano, con la mano sul cuore, per avergli preparato proprio quel piatto e in un momento, con un semplice sguardo e due parole ti senti sopraffatto dal un calore che mai avevi provato prima e, incredulo, non riesci a smettere di sorridere, fuori e dentro di te, e dimentichi tutta la stanchezza che hai accumulato nel lavoro delle scorse ore e ti senti così leggero!

Momenti come questi hanno riempito le mie giornate nell’ultimo mese e se da un lato non è stato facile riuscire a gestire un carico di emozioni così travolgenti, dall’altro questo ha aperto la porta a stimoli e riflessioni che mai mi sarei aspettato, dandomi la possibilità di scoprire nuove facce di innumerevoli medaglie e lasciandomi al tempo stesso lo spazio e il tempo per elaborare ciascuna sensazione.

Non mi risulta semplice riuscire a mettere nero su bianco queste riflessioni e nella testa si affollano mille immagini di ciò che mi è capitato, dai momenti passati nella cucina alle distribuzioni in strada, dal tempo speso a ridere e scherzare davanti a una birra ai crolli emotivi inaspettati che mi hanno colto alla sprovvista o che hanno così rapidamente cambiato l’espressione sul viso del ragazzo accanto a me, che come tutti noi che siamo qui, cerca di gestire delle emozioni che, spesso, non ci si riesce a spiegare.

Forse queste righe arrivano un po’ inaspettate e non sono in linea con quello che ho scritto fino ad ora, ma anche questa è una parte importante di questo mio strano filo del discorso e mi fa piacere riuscire a condividerla con voi.

A presto,

Davide

Quindi vai in Bosnia?

A – Ma dai ma ti sei laureato!? Complimenti! E ora che fai? Vai avanti? Cerchi lavoro?
B – Dai sì ce l’ho fatta! Ora beh, in realtà tra qualche giorno parto e vado in Bosnia!
A – In Bosnia (ma dov’è?!)?? e cosa ci vai a fare fin là?
B – Un po’ di volontariato, ma è una cosa un po’ lunga da spiegare…


Sono in Bosnia, appena fuori Sarajevo, da più o meno una settimana e finalmente riesco a buttare giù qualche riga per spiegarvi un po’ cosa sono venuto a fare fin qui. Potrebbe venirne fuori qualcosa di un po’ noioso, ma se avete qualche minuto e siete curiosi sono pronto a dare qualche spiegazione!


Prima di parlare di quello che sto facendo è però necessario capire cosa stia succedendo in questi mesi in Bosnia e avere un po’ più chiaro il quadro della situazione, almeno in linea generale.
Questa nazione si trova in una zona particolare dei Balcani dal momento che, mettendo da parte la Grecia, è situata al confine con il primo blocco di stati che fanno parte dell’Unione Europea (confina con la Croazia) ed è anche molto spostata verso alcune delle sue nazioni più centrali. Come forse saprete, dopo lo scoppio della guerra in Siria e anche per via delle vicende che riguardano altri paesi altamente instabili, come ad esempio Pakistan, Afghanistan, Iraq o gli stati africani, si è aperta un’importante rotta migratoria (chiamata appunto “rotta balcanica”) che porta persone in fuga da scontri, persecuzioni e forte instabilità ad attraversare il Medio Oriente per giungere in Europa attraverso la Turchia. Questa rotta prevedeva inizialmente l’attraversamento della Grecia e della Macedonia per poi trovarsi ad attraversare la Serbia e giungere dunque in Croazia o Ungheria ed avere così accesso alle altre nazioni europee. Tra il 2015 e il 2016 però, in seguito alla decisione degli stati europei più esterni di chiudere i propri confini, la rotta è stata formalmente smantellata, ma questo non ha impedito ai migranti di provare (e riuscire) ad attraversare i confini dei diversi stati per raggiungere l’Europa. Molte delle persone giunte dalla vicina Turchia, anch’essa pedina fondamentale nella scacchiera delle migrazioni verso il continente, sono rimaste e rimangono tutt’oggi all’interno degli stati posti al di fuori dei confini europei, quali Serbia e Bosnia, in attesa di riuscire a trovare un modo di oltrepassare i confini presidiati.

Tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 la rotta ha portato i migranti a spostarsi verso la Bosnia, fino ad allora non considerata, ed i motivi sono svariati: risulta praticamente impossibile oltre che altamente rischioso e anche poco auspicabile oltrepassare il confine serbo che porta in Ungheria data la forte presenza di presidi lungo il confine (esiste una vera e propria recinzione) e la violenza con cui la polizia e alcuni cittadini legittimati all’uso di armi rispondono ai tentativi di ingresso non curandosi in nessun modo dei diritti dei richiedenti asilo o protezione; da metà del 2017 circa la situazione al confine serbo-croato è diventata sempre più tesa visti gli episodi di violenza e i respingimenti illegali perpetrati dalla polizia croata (accertati dalle associazioni che lavorano lungo il confine e prontamente negati dalle autorità); allo stesso tempo è diventato sempre più difficile cercare di attraversare il confine illegalmente a piedi o nascosti in mezzi in transito quali autobus o treni per via dell’aumento dei controlli e dei respingimenti. È da sottolineare che qualsiasi respingimento avvenga in territorio croato (Europa) risulta illegale dal momento che per legge chiunque giunga in territorio croato ha diritto a presentare domanda di asilo o protezione. Per questi motivi, dunque, la Bosnia ha cominciato a rappresentare una valida alternativa per le persone in transito, essendo tra l’altro un territorio il cui confine con la Croazia risulta meno protetto e molto più ampio rispetto a quello serbo, e questo ci riporta al punto di partenza.

Ad oggi in territorio bosniaco risultano presenti alcune migliaia di persone in attesa di attraversare i confini e queste sono distribuite in pochi campi profughi ufficiali, novità degli ultimi mesi dato che fino a poco tempo fa lo stato non era dotato di nessun tipo di struttura di accoglienza e tutt’ora sono ancora poche quelle adatte, e in alcune città (Sarajevo in primis) in strutture abbandonate, appartamenti o campi profughi informali. La situazione che le persone si trovano ad affrontare è ovviamente diversa a seconda che esse si trovino nei campi o in città, dal momento che, per quanto poco accoglienti, i campi riescono quantomeno a soddisfare alcune necessità primarie, mentre in strada le difficoltà si moltiplicano.


Torniamo a noi.
Come dicevo, sono ormai alcuni giorni che mi trovo a Sarajevo dove lavoro con Collective Aid (vai alla sezione associazioni per capirne di più), un’associazione che si occupa di gestire la preparazione e la distribuzione di tre pasti giornalieri all’interno del campo ufficiale che risulta attualmente quello maggiormente organizzato, Ušivak Transit/Reception Centre (Ušivak TRC), e collabora con altre associazioni e realtà locali nella distribuzione di due pasti giornalieri in città per coloro che non risiedono nel campo. La situazione è molto diversa rispetto a quella che si presenta nei campi al confine con la Croazia (Bihac o Velika Kladusa) perché nel nostro caso siamo in presenza di persone che stanno attraversando il paese e che quindi dovranno affrontare ancora diversi chilometri prima di tentare di superare il confine, azione che viene definita, in modo piuttosto macabro, “gaming”: quando una persona decide di tentare l’attraversamento si dice che “giocherà/azzarderà” (to go gaming) nel senso che si tratta di una vera e propria sfida contro se stessi, contro la polizia e contro la natura del luogo che, soprattutto in inverno, non è di certo benevola.
Le persone che si trovano a Sarajevo, uomini soli o intere famiglie con bambini al seguito, attendono dunque di trovare un modo per attraversare il confine pagando ad esempio dei trafficanti che nella maggior parte dei casi li deruberanno e magari li picchieranno, o utilizzando dei mezzi che per qualche motivo potrebbero essere meno controllati. Molto spesso accade però che chi tenta di oltrepassare il confine venga respinto, derubato, picchiato e si ritrovi dunque al punto di partenza.

Per quanto riguarda l’attività all’interno del campo, ogni giorno due squadre di volontari si alternano all’interno della cucina del campo e del container adibito a zona di preparazione per il cibo: la prima si occupa di preparare e distribuire colazione e pranzo dalle sette e mezza di mattina alle quindici e trenta circa, mentre la seconda si occupa della cena e di cominciare la preparazione per il giorno successivo dando il cambio alla prima squadra e proseguendo fino alle ventidue circa con le pulizie finali. Dalla mattina alla sera i volontari si spostano tra cucina, container e magazzino intenti a preparare, cuocere, lavare e pulire tutto in modo da riuscire a servire i tre pasti. Ogni squadra è composta generalmente da 8 persone che si dividono tra la cucina vera e propria dove vengono cucinate le pietanze e il container dove viene invece preparato tutto ciò che è necessario alla cucina. Punto di forza di questa associazione, che è anche il motivo per cui è stata richiesta per l’intera gestione della cucina del campo, è il fatto che i volontari non lavorano solo per produrre qualcosa di sufficiente alla sopravvivenza ma per riuscire a preparare dei pasti che possano chiamarsi tali, composti da pietanze vicine alle tradizioni dei migranti, che possano soddisfare tutti in modo tale che chi li riceve riesca a sentirsi un po’ meno come un pezzo di carta con sopra la propria foto e un numero identificativo e un po’ più una persona, la cui dignità viene rispettata.

Penso che questo sia uno degli aspetti del nostro lavoro a cui teniamo maggiormente e che spesso viene a mancare soprattutto quando si tratta di organizzazioni governative: l’idea è quella di riuscire non solo a risolvere un’urgenza (riuscire a mangiare abbastanza) ma anche a stabilire un rapporto con le persone che si cerca di aiutare, per uscire dalla logica verticale dell’aiuto calato dall’alto, distaccato, spersonalizzato e spersonalizzante e costruirne una orizzontale caratterizzata dal dialogo, dalla comunicazione necessaria per comprendere quelle necessità che spesso non sono evidenti e non vengono esplicitate ma risultano maggiormente importanti. Dobbiamo, secondo me, uscire dall’ottica secondo la quale siamo qui per portare il nostro aiuto salvifico e che ciò che noi riteniamo essere giusto e prioritario lo sia effettivamente, per cominciare a capire che si tratta di una relazione e non di un’azione, per cui non siamo gli unici protagonisti ma abbiamo un interlocutore attivo davanti a noi con cui costruire ciò che facciamo. È chiaro che devono esistere delle gerarchie, delle regole da rispettare, delle condizioni per riuscire a convivere, ma il modo in cui queste vengono poste o imposte cambia radicalmente il risultato delle nostre azioni.

Per quanto la mia esperienza sul campo sia limitata, ne sono consapevole, vi assicuro che la differenza è davvero lampante anche in un atto che può sembrare così banale come la distribuzione di un pasto: la differenza tra un “pacco alimentare” consegnato dall’esercito all’interno di un campo profughi, contenente le stesse cose indipendentemente dal tipo di persone a cui è rivolto, con troppo poco di ciò che è realmente necessario e troppo di ciò che invece non serve e produce solo rifiuti e sprechi, e un pasto preparato e consegnato da un’associazione come Collective Aid, che cerca di capire cosa vogliono e di cosa necessitano le persone che si trova davanti e prova, nei limiti del possibile, ad accontentarle, è veramente enorme. Quando passi ad un uomo di mezza età, che potrebbe benissimo essere tuo padre, un piatto che gli ricorda qualcosa di familiare nei sapori e negli odori e quell’uomo ti guarda con un’espressione mista di stupore, felicità e gratitudine e ti ringrazia, proprio in quel momento, le ore che hai passato a lavare e tagliare cesti infiniti di patate e cipolle e i dolori a muscoli che non pensavi di avere lungo tutta la schiena, è come se non ci fossero mai stati.

La distribuzione di pasti in città si svolge in un contesto completamente diverso. Dopo aver preparato, in collaborazione con Aid Birgade (associazione di volontari indipendenti), il necessario per la distribuzione del pranzo o della cena in un piccolo chiosco adibito a cucina, ci si avvia verso un parcheggio un po’ defilato appena fuori dalla città nei pressi di una moschea. Qui, come già sa chi viene a mangiare, sistemiamo un tavolo su cui prepariamo tutto l’occorrente per la distribuzione, e davanti ad esso formiamo due file abbastanza ordinate. A ciascuno viene dunque servita una porzione di quello che è stato preparato insieme a del pane e, nel caso se ne volesse ancora, c’è la possibilità di rimettersi in fila e prenderne ancora. Mentre alcuni volontari servono ed altri controllano che le file scorrano senza problemi e senza che si formi calca vicino al tavolo, le persone scorrono e vengono servite circa cento porzioni anche se il numero è molto variabile a seconda dei giorni, delle condizioni meteorologiche e degli arrivi o delle partenze. Quando le file si esauriscono, ne rimane una soltanto per la distribuzione di cibo a chi ancora non lo avesse ricevuto o ne volesse ancora, mentre l’altra viene utilizzata per distribuire del te caldo fino a quando tutti ne abbiano ricevuto a sufficienza.

Durante queste distribuzioni si incontrano facce familiari che si vedono anche al campo, qualcuno di nuovo e qualcun altro che invece si ritrova sempre alle distribuzioni in un clima che solitamente è abbastanza disteso tra mille lingue che si mischiano, c’è infatti chi parla arabo, chi turco, farsi o ancora francese e italiano, c’è chi ringrazia e se ne va, chi rimane in compagnia di altri e chi scherza e grida. È un momento molto diverso rispetto alla distribuzione all’interno del campo perché, trovandoci in un contesto molto più informale e completamente autogestito, tutto risulta più umano e diretto, ma allo stesso tempo è una situazione molto intensa, perché si tocca con mano, senza filtri, quello che succede. Sei dentro la famosa crisi migratoria, sei dentro la rotta balcanica, sei sulla strada di chi arriva da un luogo lontano e lascia tutto sperando di riuscire a spingersi chissà fin dove.

Questo contesto mi riporta indietro alle distribuzioni fatte per le strade di Salonicco, in Grecia, con IHA e Team Bananas, quando ci spostavamo tra la stazione ferroviaria e alcuni edifici abbandonati per distribuire generi alimentari e altri prodotti per l’igiene o per vestirsi. In questo caso le distribuzioni sono più organizzate e trovandoci appena fuori dalla città, non siamo a contatto diretto con i posti in cui queste persone trovano riparo per dormire, come invece accadeva in Grecia, ma le sensazioni sono le stesse e, personalmente, vengo sempre travolto da un misto di emozioni.

Da un lato, distribuire quei piatti e guardare in faccia ognuna di quelle persone mi fa stare bene nel profondo, mi fa pensare che sono esattamente nel posto in cui voglio e devo essere in questo momento (quanto è importante!), mi fa pensare che per quanto piccolo sia, questo gesto possa davvero dare qualcosa a qualcuno, ed è come se in ogni momento sentissi un’energia travolgente che mi fa dimenticare di essere qualche grado sotto zero, dolorante per tutto il tran tran giornaliero e mi fa pensare di poter fare qualsiasi cosa. Essere qui in questo momento, con questo piatto in mano, è la cosa più importante. Dall’altro, anche se cerco di trattenere un fiume in piena di pensieri, dubbi e domande, mi sento terribilmente confuso, perché non sono sicuro di essere in grado di capire quello che sta succedendo alla persona che mi ha appena ringraziato per un pezzo di pane in più, o ancor di più quello che mi sta succedendo tutto intorno. È come se mi guardassi dall’alto e piano piano si ingrandisse sempre di più la visuale fino a comprendere l’intera città, e poi percorressi a ritroso tutta la strada che queste persone hanno fatto per arrivare in questo preciso punto dove mi trovo anche io fino ad arrivare al punto da cui tutto è partito.

Cosa succede? Perché te ne sei andato? Perché tutta la tua città è stata distrutta? Per quale motivo i tuoi fratelli sono morti nell’esplosione di una bomba? Chi ti impedisce di essere ciò che sei, di fare ciò che ti fa star bene, di vivere la tua vita?

Un po’ mi perdo in queste domande e un po’ mi perdo, irrequieto, nel mio senso di inadeguatezza in questo mondo che faccio fatica a capire ma che in qualche modo voglio scoprire per risolvere questo rebus infinito che ho in testa. Mi capita, a volte, di lasciarmi prendere dallo sconforto, dal senso di impotenza, dall’idea che per quanto possiamo cercare di cambiare le cose ci siano dei muri invalicabili, delle barriere che non si possono abbattere, fisiche certo, ma soprattutto mentali, di coscienza, di negligenza. Vorrei in quel momento riuscire a condividere con ogni singola persona che conosco le immagini che mi scorrono davanti agli occhi, i volti di queste persone, le sensazioni che provo, perché, al di là della retorica, sono sicuro che siamo noi stessi il primo ostacolo alla soluzione di un problema che ancora non ho capito del tutto.

Si torna sempre a casa, sia dal campo che dalla distribuzione, e ci si trova ad un certo punto della serata più o meno tutti insieme nella cucina e nella sala di questa grande casa in cui vivono una ventina di volontari che arrivano da tutto il mondo. È il momento che preferisco probabilmente, sul volto di ciascuno di noi puoi leggere davvero chiaramente tutto quello che ha passato durante la giornata, la stanchezza per le tante ore passate a lavorare, la serenità di essere a casa e in compagnia, la gioia per un po’ di cibo e qualcosa da bere, l’irrequietezza per qualche dubbio o domanda irrisolta o per una giornata andata un po’ storta (non fila sempre tutto liscio) e io mi sento bene, stanco ma soddisfatto, non tanto per quello che ho fatto ma per tutto quello che mi circonda, per queste persone che condividono con me i lati positivi e negativi di un’esperienza del genere e che, come me, sono alla ricerca di qualcosa che li ha portati in questa stanza.


A presto,
Davide