Calais

“Apri lo scatolone, chiudi lo scatolone, aprilo, chiudilo, apri, chiudi, apri chiudi. È inutile che cerco a destra e a sinistra, non abbiamo abbastanza tende, non ci sono abbastanza tende! Cosa cazzo gli diamo per dormire adesso?

250 felpe con cappuccio taglia M, 135 taglia L, 57 maglioni scuri, 103 magliette colorate, 45, 120, 23 riportati indietro, 76 da riordinare. La polizia? Ancora? Un altro sgombero? Quanti ne hanno arrestati? Hanno bruciato alcune tende. “

Suona la sveglia

Sono tornato a casa da un paio di settimane ma ogni tanto mi capita di sognare scatoloni, vestiti, distribuzioni e incontri che hanno segnato i miei ultimi due mesi trascorsi a lavorare insieme ad Help Refugees a Calais, sulla manica, al confine con il Regno Unito. Due mesi davvero intensi, pieni, estremamente interessanti ed educativi, gioiosi, tristi, disperati, faticosi fisicamente ma ancor più psicologicamente. Ogni volta che mi sposto a lavorare in una nuova realtà, nonostante pensi di essermi ormai abituato a determinate situazioni, mi ritrovo sempre spiazzato, incredulo, come fosse la prima volta sul campo.

Ho deciso di partire per Calais una volta tornato a casa dalla Serbia dove ho lavorato con Collective Aid, con la voglia di lavorare in un contesto diverso, in una differente zona d’Europa, per conoscere nuove associazioni, nuove persone, nuove idee e aggiungere un piccolo pezzo al puzzle che pian piano sto costruendo nella mia testa. È un puzzle che ho cominciato a mettere insieme solo qualche anno fa, senza immaginare che i pezzi fossero così tanti e così diversi tra loro, ed ogni volta che mi sembra di intravedere l’immagine nascosta, capisco che si tratta solo di una parte di quello che in realtà è un vero e proprio dipinto, con parti molto scure ed altre più luminose, senz’altro pieno di colori e mille sfumature che mi regalano man mano sensazioni ed esperienze sempre nuove.

A Calais ho lavorato principalmente con Help Refugees, un’associazione inglese abbastanza grande che opera direttamente sul campo solo nel nord della Francia ma che ha come scopo principale la raccolta di fondi per finanziare moltissime associazioni più piccole che lavorano in tutta Europa e non solo. Mi aspettavo di trovare un gruppo di volontari ma mi sono ritrovato immerso in un vero e proprio universo, circondato da diverse associazioni francesi e inglesi impegnate a lavorare insieme allo stesso progetto, ognuna con le proprie peculiarità, pregi e difetti, e con scopi e campi d’azione differenti. Essere a contatto con diverse realtà associative mi ha permesso di scoprire, conoscere ed imparare moltissime cose e lavorare con persone molto diverse tra loro mi ha dato la possibilità di osservare, un po’ stupito e un po’ affascinato, i diversi approcci di menti e personalità differenti tra loro, che tra incontri e scontri producono una quantità ed una qualità di lavoro che non avrei mai immaginato.

Come sempre, prima di arrivare a Calais non avevo che una minima idea di come stessero le cose ma in pochi giorni ho cominciato a capire le dinamiche e la storia di questa piccola cittadina.
Dopo l’evacuazione del grande campo ufficiale, “la giungla”, nel 2016, tutti i migranti rimasti sul territorio si sono ridistribuiti in modo non ufficiale in piccoli siti attorno alla città, suddivisi un po’ per etnia e un po’ per comunità e al momento ci sono circa un migliaio di persone in quattro o cinque siti differenti. Non è ben chiaro quale sia stato lo scopo dello smantellamento del campo ufficiale, dal momento che lo stato non ha messo a disposizione un’alternativa vera e propria (le sistemazioni di emergenza o le abitazioni statali sono praticamente sempre piene anche se si tratta di persone vulnerabili, ne vengono fornite informazioni a chi vive nei campi improvvisati di come funzioni la procedura di richiesta d’asilo o di come siano gestite le abitazioni statali) e sembra che l’interesse o forse la velata speranza della polizia e delle prefetture sia che ad un certo punto tutti i migranti presenti sul territorio decidano di andarsene in un altro posto non ben precisato e non si sa bene nemmeno per quale motivo. Ma poco importa il perché le persone siano a Calais o come possano spostarsi o risolvere la loro situazione perché l’unico vero interesse è che smettano di “creare un fastidio” per la comunità e lo stato stesso, che accada perché riescano ad attraversare il confine o perché muoiano investiti, di freddo o asfissiati cercando di attraversarlo non fa alcuna differenza. Non proprio quello che mi aspettavo insomma.

Vi starete chiedendo cosa abbia combinato in questi ultimi due mesi? Ci arrivo subito.

Molto spesso quando parlo con qualcuno quasi mi dimentico di essere stato via per tutto questo tempo senza comunicare propriamente quello che stavo facendo e mi capita di dare per scontato che la persona che ho davanti abbia visto esattamente quello che ho visto io e fatto esperienza di quello che mi è capitato. Forse, penso, è un po’ anche un modo per difendermi da quello con cui sono entrato a contatto e che, come sempre, mi ha rivoltato sotto sopra, perché non mi è sempre semplice riuscire ad aprirmi e tirare fuori questo insieme di eventi che mi hanno travolto.

Ma torniamo a noi. Nei mesi di maggio e giugno mi sono occupato principalmente di distribuzioni di vestiti e prodotti igienici nei siti dove vivono la maggior parte dei ragazzi che cercano di raggiungere l’Inghilterra attraverso la manica. Lavorare nell’ambito delle distribuzioni è molto più complesso di quanto si possa immaginare perché non si tratta solamente di portare qualcosa a qualcuno ma di una vera e propria macchina con mille ingranaggi che devono lavorare simultaneamente ed in collegamento costante per far sì che tutto fili più o meno liscio.

Tutto comincia dall’arrivo delle donazioni nel grande magazzino dove ho passato gran parte del mio tempo. Chi gestisce le distribuzioni lavora all’interno di questo grande capannone con il team che si occupa di gestire donazioni in entrata ed in uscita, smistare, controllare e riordinare tutto mettendo ogni cosa nel posto adatto oltre a gestire il via vai di volontari sempre in arrivo e in partenza con la loro voglia di lavorare e di capire meglio come funzioni il tutto. Nel magazzino ho lavorato quindi con altri volontari occupandomi di controllare le donazioni in entrata per capire cosa andasse bene e cosa no per le distribuzioni, misurare e smistare tutti i diversi capi a seconda del loro utilizzo, del loro stato e della nostra necessità nel distribuire, contare e ricontare pile infinite di vestiti di ogni genere e colore (non avete idea di cosa si trovi nelle donazioni) per poi spostarli qua e là.

Se chiudo gli occhi vedo ancora carrelli pieni zeppi di scatoloni, montagne di maglioni, buste giganti piene di magliette, e gente pazza che corre a destra e manca cercando di dare un senso a tutto.

Se mi immagino di muovermi attraverso tutto il magazzino spinto da un altro volontario su un piccolo porta pacchi, come mi è capitato molto spesso di fare, vedo a sinistra tavoli per misurare e contenitori di ogni forma, a destra persone che riempiono scaffali, più avanti coperte e sacchi a pelo e ancora tende chiuse e aperte per il controllo, borse, zaini, tutti i prodotti igienici immaginabili fino ad arrivare in quel posto magico per noi volontari che è la zona dove qualche anima pia ogni tanto si mette alla macchina da cucire per riparare qualche donazione che sarebbe perfetta se non fosse per quella piccola scucitura. Non ho mai desiderato tanto vedere qualcuno seduto ad una macchina da cucire per risolvere tutti i nostri problemi!

Una delle cose che mi ha stupito maggiormente in questi mesi è stata la straordinaria professionalità della maggior parte dei volontari con cui ho lavorato, tutti pronti a cercare di fare il più possibile e nel miglior modo possibile per far sì che tutta quella grande macchina funzioni alla perfezione. È tra queste fantastiche persone, con cui nel giro di poche settimane ho creato un legame davvero intenso, che ho scoperto la stupenda professionalità e passione di giovani che si sono trovati anche per caso in una realtà estremamente complessa e che sanno affrontare sfide lavorative e personali davvero impegnative, non senza difficoltà ne senza errori, certo, ma con uno spirito, una volontà ed un’energia che fatico a trovare altrove. In questo contesto non è mai mancata una straordinaria energia di condivisione, che ha reso le mie giornate di lavoro piene di divertimento, musica, supporto reciproco, conversazioni e discussioni interessanti, risate, pianti. Sono emozioni che ti cambiano, in mille modi diversi.

Una volta che tutto ciò che serve per le distribuzioni è ordinato e al suo posto, si passa alla fase di preparazione e di distribuzione vera e propria. Ogni mattina precedente la distribuzione il team si ritrova per impacchettare e caricare il camioncino con tutto ciò che verrà distribuito cercando di avere sempre il numero giusto di vestiti e prodotti igienici in modo che ce ne siano abbastanza per tutti, che rispettino un certo standard di qualità, che siano abbastanza omogenei tra loro ma che allo stesso tempo ci stiano tutti sul minivan.

Finita la preparazione ci si siede davanti ad un caffè per un piccolo briefing sulla distribuzione che sta per essere effettuata in modo da essere tutti sulla stessa lunghezza d’onda, dividersi i ruoli, pianificare eventuali evacuazioni e risposte ad emergenze che possono sempre succedere. Si parte.

Le distribuzioni sono diverse a seconda del sito in cui si distribuisce e del numero di persone attese per la distribuzione; io ho quasi sempre preso parte a quelle che vengono definite “distribuzioni di massa” che prevedono la consegna di un solo tipo di capo di abbigliamento (oltre eventualmente a calze o mutande e ai sempre presenti prodotti igienici) a circa un paio di centinaia di persone. La distribuzione è tanto semplice in teoria quanto difficile in pratica. In poche parole uno o due volontari distribuiscono un capo a ciascuno dei ragazzi che si presentano e si mettono in fila, tre o quattro volontari controllano che la fila proceda regolarmente e fanno conversazione con chi arriva per dare qualche spiegazione circa gli orari delle mille diverse distribuzioni o fare semplicemente due chiacchiere mentre un altro paio di volontari si occupano di capire se ci sono problemi nei siti abitativi, se qualcuno ha qualche necessità specifica e chi sono i nuovi arrivati a cui distribuire una tenda e nella migliore delle ipotesi coperte e/o un sacco a pelo.

Tutto può filare liscio ma le difficoltà sono mille e diverse tra loro ed è per questo che occuparsi di distribuzioni può essere molto complicato sia a livello logistico che interpersonale. Da un lato ci sono molti aspetti da considerare quando si distribuisce qualcosa, da quelli più banali come l’assicurarsi di avere abbastanza capi per tutti o che i capi abbiano più o meno la stessa qualità per non creare discriminazioni, ad altri più complicati da gestire.

Non sempre è semplice distribuire un solo capo a persona quando tutti, sia loro che te, sapete che sarebbe necessario distribuire molto di più ma per mancanza di materia prima non è possibile. Non è semplice riuscire ad essere visti come imparziali nei confronti di tutte le diverse etnie presenti (nel campo principale convivono  persone di più di 20 nazionalità diverse) senza sembrare di favorire qualcuno piuttosto che qualcun altro, perché devi cercare di parlare con tutti, di rispondere a tutti, considerando che non tutti rispondono allo stesso modo al tuo modo di porti nei loro confronti e che non è sempre semplice nello stesso modo raggiungere persone di cultura diversa. Ci sono sempre mille cose a cui pensare quando distribuisci, quando parli, quando discuti e soprattutto quando devi spiegare che non puoi portare qualcosa di cui tutti hanno bisogno ma tu, in quel momento, non riesci ad avere. Non è semplice avere a che fare con persone vulnerabili, che vivono in condizioni estremamente degradanti per la loro dignità, che hanno problemi di dipendenza da alcool e droga per via del contesto in cui vivono e dei traumi che soffrono, che si trovano in un limbo legislativo e ancor più in una condizione di vita sospesa, perché quella che fanno non si può proprio chiamare vita, che spesso soffrono di disturbi psicologici o psichici anche gravi oltre che di diverse condizioni mediche problematiche.

Non è un lavoro semplice.

Penso di essermi trovato spesso in situazioni davvero complicate da gestire in primo luogo a livello pratico ma successivamente a livello personale. Mi è capitato spesso di dover gestire gli ordini per i nuovi arrivati e per le emergenze (solitamente scarponi, teli per coprire le tende, giacche e maglioni pesanti di emergenza, piuttosto che pantaloni nel caso qualcuno non ne avesse nemmeno un paio) in giornate che mi sono sembrate spesso infinite e durante le quali non riuscivo a non essere teso fino al ritorno al campeggio dove ho vissuto con gli altri volontari.

In quelle giornate mi è spesso capitato di dover gestire il “telefono delle distribuzioni” che rimane acceso tutto il giorno e il cui numero viene distribuito a tutti i ragazzi nei campi. Il telefono viene usato per ricevere messaggi e chiamate nel caso di nuovi arrivi che hanno bisogno del necessario per dormire e per raccogliere gli altri ordini durante il giorno e durante la distribuzione. Immaginate un volontario italiano, inglese o di altra nazionalità che cerca di comunicare con un ragazzo sudanese, iraniano o eritreo per discutere cosa si può o non si può consegnare, ma soprattutto perché, e organizzarsi per le distribuzioni. Mi viene un po’ da ridere e un po’ da piangere a pensarmi al telefono o di persona che comunico con i ragazzi tra gesti, inglese e parole in altre lingue che in qualche modo cercavo di articolare. Un cinema.

La parte più complicata, probabilmente la responsabilità maggiore, è sempre stata “dire no”. Un conto è distribuire, riuscire a consegnare qualcosa che piace e che serve, leggere il volto della persona davanti a te, parlarci, scambiarsi una stretta di mano o un abbraccio per il lavoro che stai facendo e la relazione che stai instaurando, una soddisfazione e una gioia indescrivibili, credetemi, ben altra cosa è dover spiegare a qualcuno che non puoi dargli quello che ti sta chiedendo.

  • Dire no a chi ti chiede un paio di pantaloni in più perché ne ha uno solo che tra l’altro vorrebbe anche lavare.
  • Dire no a chi ti chiede scarpe da tennis invece che scarponi sempre troppo pesanti o che attirano subito gli sguardi se ci cammini in città.
  • Dire no a chi ti chiede una felpa in più, una maglietta in più, una giacca in più.
  • Dire no a qualcuno che ti chiede un sacco a pelo, perché fa un freddo infame a dormire in una tenda e una o due coperte non bastano, ma tu di sacchi a pelo ancora non ne hai abbastanza da distribuire a tutti.
  • Dire no a chi ti chiede semplicemente di poter avere una tenda ciascuno, una tenda striminzita, che però tu non puoi dare perché le stai finendo quelle tende e allora ci si deve arrangiare e condividere una tenda in due, quella tenda che però per loro è tutta la loro casa e la loro vita.
  • Dire no a chi è arrivato la sera e deve aspettare fino all’ indomani per ricevere qualcosa.
  • Dire no a chi ti chiede una coperta in più, perché non ne hai abbastanza e le puoi consegnare solo ai nuovi arrivi. Avete idea di quanto sia disumano dire a qualcuno che il suo amico che è appena arrivato, magari chissà da dove, deve venire di persone per ritirare tenda e coperte perché non puoi dargliele a lui? Come se lui fosse un ladro, come se non ti fidassi, come se avere freddo non fosse una ragione sufficiente per avere un’altra coperta. Una coperta.

Me li ricordo bene quei momenti, mi ricordo le parole, mi ricordo i miei gesti e le mie parole, perfettamente, mi ricordo i loro volti, mi ricordo i silenzi in attesa che io cambiassi idea o trovassi un’altra soluzione che però non c’era, mi ricordo le richieste, mi ricordo i “per favore”, mi ricordo la delusione, lo sconforto, la rabbia a volte anche urlata, mi ricordo di quello che poteva essere mio nonno, mio zio, mio fratello e mi chiedeva una coperta che io non avevo.

Mi ricordo tutte le volte che non ho saputo cosa dire, perché quando qualcuno ti chiede a cosa serva sapere cinque lingue se poi non puoi fare nulla della tua vita o se qualcuno ti chiede perché tu puoi avere una relazione e lui no semplicemente perché è in viaggio da anni e non ne ha nemmeno mai avuto la possibilità, in quel momento non sai cosa dire.

Mi ricordo tutte le volte che avrei voluto avere il mondo in quella macchina, tutte le volte che avrei voluto dirgli che non era colpa mia, che ci provavo, che stavo dando tutto me stesso, tutte le volte che avrei voluto mollare tutto perché, in fondo, sai che non è giusto.

Penso che questi siano stati i momenti più difficili.

Ogni viaggio di ritorno dalle consegne sono stato male, perché poco conta che tu stia facendo del tuo meglio e ancora meno che tu non possa fare altro per aiutarli, perché in quel momento non c’è ragione che tenga, non c’è scusa e tutto sembra troppo complicato.

Quando lavori in questi luoghi, ti rendi conto di quanto non abbiamo la minima idea di quello che succede dietro casa, a pochi chilometri di distanza. Se c’è una cosa che vorrei profondamente, è che i vostri occhi potessero vedere esattamente quello che ho visto io, che poteste tutti camminare dove ho camminato, tra i rovi e i topi, in quei boschi dove centinaia di esseri umani sono costretti a vivere in condizioni che non immaginiamo nemmeno possano esistere.

Non potevo credere a quello che vedevo, non potevo pensare che mentre io me ne tornavo a casa c’erano ragazzi e famiglie che chiudevano una tenda in mezzo a quell’inferno.

Quell’inferno in cui ogni due mattine la polizia fa evacuare tutti coloro che ci vivono, raccatta tutto quello che trova, tende, coperte, vestiti, altri averi personali, per poi portarli via e lasciare che ognuno torni al proprio posto.

La stessa polizia che non ti permette di entrare e vedere cosa succede durante le evacuazioni anche se sei un volontario, anche se sei francese, la stessa polizia che non ti risponde quando chiedi il perché di ciò che fanno, che ti dice che devi fidarti, sono la polizia, lo stato, non succede niente di male, che nasconde i propri numeri identificativi per far sì che tu non possa riconoscere chi sta agendo in modo inadeguato e contro le leggi, che in passato ha malmenato profughi e anche volontari senza nessun motivo, che persegue penalmente volontari che cercano di testimoniare cosa accade, che taglia tende, che brucia zaini e cibo.

Ci sono momenti in cui ti chiedi dove tu sia finito, che fine abbia fatto il mondo a cui sei abituato. Ci sono stati momenti in cui non capivo più niente di quello che stava succedendo, in cui non avevo nessuna speranza e non vedevo nessuna luce in fondo a quel maledetto tunnel, in cui sono stato così arrabbiato, in cui mi sono sentito frustrato per la situazione e completamente inerme.

Ci sono stati dei momenti pieni di emozioni positive, soprattutto attimi, brevi istanti, che mi hanno donato una gioia così travolgente che non posso trovare le parole per esprimerla.

Mi ricordo quando, dopo circa una settimana, ho incontrato durante una distribuzione uno dei profughi con il quale qualche mese prima ho passato diverso tempo a parlare del più e del meno immersi nella neve della Bosnia, in un altro campo, in un’altra realtà. Ci siamo incontrati di nuovo e non appena l’ho riconosciuto quasi non ci credevo, proprio lui! Proprio il ragazzo che voleva sempre più olive in quella dannata insalata! Mi ha riconosciuto subito. Ci siamo abbracciati.

Un altro momento che subito mi passa davanti agli occhi risale al giorno della mia ultima distribuzione, quando una volta finita un uomo sulla sessantina, sempre molto pacato e gentile, mi è venuto incontro e mi ha chiesto come stessi, mi ha ringraziato per tutto quello che stavamo facendo, mi ha stretto la mano e poi, guardandomi con uno sguardo e un viso che penso non dimenticherò facilmente, mi ha detto che ho un viso dai lineamenti molto belli, degli occhi pieni di gioia e uno sguardo pacifico. Quel momento è valso più della fatica di tutti i giorni precedenti.

Si torna sempre a casa alla fine di ogni giornata, bella o brutta, lunga o corta, ed è lì che sono sempre riuscito a mettere un attimo in pausa tutte le complicazioni del lavoro e tirare un sospiro di sollievo. Rientrare al campeggio la sera è sempre stato il momento più importante. Ritrovare le facce e le voci che mi hanno accompagnato in tutti quei momenti complicati durante la giornata, farsi accogliere dall’abbraccio di quella strana famiglia, cucinare e mangiare insieme, sono stati per me il sostegno più importante in questi mesi. Non c’è bisogno di spiegarsi, non c’è bisogno di chiedere qualcosa. Ed è in quelle persone, così come nello sguardo, nella stretta di mano e nel sorriso delle persone che incontri ogni giorno e che ti sorprendono sempre, che trovo il senso dietro a tutto questo.

Lavorare in questi contesti mi regala sempre delle scariche emozionali impressionanti, a volte travolgenti ed improvvise ed altre volte più calme e avvolgenti. Penso sia incredibile, ed è uno degli aspetti che più mi affascinano di queste esperienze, quanto si possa imparare, scoprire, ascoltare e guardare stando a contatto e lavorando con tutte le persone che si incontrano. Amo profondamente scoprire qualcosa di nuovo, e mai come in questi mesi sono stato impressionato, stupito, riempito di gioia dagli incontri che ho fatto e da tutti gli spunti di riflessione che mi hanno regalato. Ho scoperto emozioni, ho cambiato idee ed abitudini, ho pensato così tanto ed in modo così diverso da come sono sempre stato abituato a fare, mi sono esposto, mi sono lasciato andare, mi sono spogliato di alcuni strati dentro i quali mi sono spesso nascosto per arrivare a scoprire qualcosa che se ne stava lì, dentro di me.

Tornare a casa fa sempre un effetto strano, devi sempre abituarti a ritmi diversi, persone diverse, situazioni completamente differenti da quelle lasciate alle spalle. Penso che l’aspetto più complesso sia la gestione della quotidianità, perché in una manciata di giorni ti ritrovi faccia a faccia con un altro mondo e ne uno ne l’altro sono mondi a te estranei, semplicemente differenti, quasi distaccati l’uno dall’altro ma in fondo così strettamente legati.

È qualcosa che faccio davvero fatica a spiegare alle persone con cui parlo e, prima di tutto, a spiegare a me stesso: non si può vivere in due posti differenti contemporaneamente, non si può essere in un luogo e in un altro allo stesso tempo né col corpo ne con la mente, non è possibile, a maggior ragione se sono contesti completamente diversi l’uno dall’altro.

Ci ho sbattuto la testa così tanto su questo problema (come sono solito fare) che ad un certo punto ho cominciato a pensare che sia proprio questa la chiave di volta.

Non ha senso cercare una soluzione a questa questione perché il punto, forse, è che in fondo in fondo non si tratta di posti diversi, non si è o qui o la, non sono due vite differenti, due mondi differenti, semplicemente basta allargare lo sguardo, smettere di tenere gli occhi fissi su noi stessi, sui nostri interessi, sui nostri problemi, anch’essi molto reali, su quello che volgiamo noi, di cui noi abbiamo bisogno e cominciare a guardarsi attorno, a pensare a chi hai di fianco, a cosa ti succede a un palmo di distanza, alle necessità dell’altro, di tutti gli altri e vi assicuro che la prospettiva cambia completamente e così anche i nostri bisogni e i nostri problemi, che non scompaiono affatto ma si trasformano!

Non serve andare a Calais, in Bosnia, in Serbia per cambiare le cose (che pure è così semplice e necessario, ve lo assicuro!), non venitemi a dire che ammirate quello che faccio perché non avreste il coraggio, il tempo o la volontà per farlo, perché ciò che deve cambiare non è là, ma esattamente qui, esattamente nel posto dove state leggendo.

Quello che deve cambiare siamo noi. Nient’altro. E non c’è scusa che tenga, perché per cambiare noi stessi non dobbiamo andare proprio da nessuna parte, non abbiamo bisogno di soldi, non abbiamo bisogno di più tempo.

Dobbiamo solo iniziare a guardarci attorno.    

Il Punto – Bosnia 2018

Sono sull’autobus che da Sarajevo mi porta a Belgrado, catapultandomi da un progetto all’altro nella mia avventura insieme a Collective Aid nei Blacani e dopo essere tornato per un paio di settimane in Bosnia è arrivato il momento di fare il punto su tutto quello che è successo nel 2018 in questo paese cercando di raccogliere tutte le informazioni accumulate nel corso dei mesi.

Tornare a Sarajevo è stato molto emozionante. Incontrare di nuovo alcune delle persone con cui ho lavorato e condiviso molto negli ultimi tempi mi ha fatto un immenso piacere, un po’ come tornare a casa dopo una breve pausa. Riprendere il lavoro nel campo è stato molto motivante ma da subito molto intenso e faticoso per la mole di lavoro e l’aumento di ospiti all’interno della struttura; oltre al lavoro in cucina siamo stati coinvolti in parte anche nelle attività di intrattenimento durante il giorno cercando di offrire la possibilità di passare il tempo anche facendo un po’ di sport e giocando a calcio o cricket.

Questa volta vorrei però cercare di dare un’idea generale di quello che è successo all’interno dell’intero paese nel corso del 2018, riportando molte delle informazioni contenute in un piccolo libro appena pubblicato che contiene un report molto dettagliato sulla situazione attuale: “People on the Move in Bosnia and Herzegovina in 2018: stuck in the corridors to the EU” di Gorana Mlinarevic e Nidzara Ahmetasevic, giornalisti, attivisti e volontari che hanno girato il paese per documentare la situazione. Probabilmente sarà un articolo un po’ lungo e con molte informazioni magari anche un po’ noiose, ma sono sicuro che possa essere un modo molto comodo e utile per capire come si stiano evolvendo le cose in Bosnia ed essere aggiornati.  

Contesto e registrazione

Come ho già accennato in un precedente articolo, la Bosnia presenta diverse peculiarità sia dal punto geografico, data la posizione che oggi la rende centrale all’interno della rotta balcanica, sia per quel che riguarda la sua storia recente a partire dalla guerra civile degli anni ’90 fino ai giorni nostri. Proprio per via della sua disfunzionalità politica e logistica dovuta al contesto post-conflitto, lo stato non risulta ancora in grado di rispondere in maniera adeguata alle emergenze umanitarie (si pensi alla crisi seguita alle inondazioni del 2004) e dato che è formalmente stato negli ultimi anni sotto il semi-protettorato della comunità internazionale, la presenza di agenzie internazionali sul territorio è particolarmente significativa e sono ancora molti gli attori protagonisti dei processi decisionali a livello statale, fatto che contribuisce al malfunzionamento della risposta alle crisi sul territorio. Queste considerazioni, oltre al fatto che la Bosnia risulta ad oggi una delle nazioni più corrotte e instabili in Europa, hanno portato l’unione europea ad affidare i propri fondi (tra i 7 e i 10 milioni di euro) per affrontare la crisi migratoria alle agenzie ad essa collegate (UNHCR, UNICEF, IOM) invece che direttamente allo stato. Questa decisione potrebbe essere contesta, sostenendo che le istituzioni statali hanno vincoli di trasparenza più rigidi rispetto alle agenzie internazionali oltre al fatto che l’assunzione di responsabilità nella gestione dei fondi avrebbe potuto portare ad un miglioramento delle funzionalità di uno stato che ancora fatica ad uscire da un periodo di crisi prolungato. Nonostante queste considerazioni, l’UE ha deciso di agire secondo altri principi e questo ha portato ad una situazione in cui è sempre possibile rimpallare responsabilità e colpe da un attore all’altro e ciascuno di essi ha delle scuse per la proprio inadempienza: per capirci, lo stato sostiene che essendo i fondi nelle mani delle agenzie internazionali questo non gli permette di svolgere i compiti che effettivamente gli spettano in modo adeguato mentre d’altro canto le agenzie internazionali lamentano le inadempienze e l’incapacità dello stato, che per legge è responsabile della risposta alla crisi attraverso i suoi ministeri, di creare le condizioni adeguate per collaborare e utilizzare le risorse. A tal proposito risulta utile ricordare che dal 2004 UNHCR ha passato la responsabilità della gestione delle procedure di richiesta di status di rifugiato allo stato, affermando, dopo aver collaborato alla creazione e all’adozione dell’apparato legislativo in tale campo, che il governo della Bosnia possiede un sistema nazionale di asilo efficiente.

Per quanto riguarda i numeri della crisi, a novembre 2018 il numero di persone di cui è stato registrato l’ingresso nel paese era pari a 23’123 delle quali 21’759 hanno espresso l’intenzione di richiedere asilo politico in Bosnia e 1’356 hanno effettivamente completato la richiesta. I numeri presentati dal governo sembrano dunque indicare tre categorie di persone presenti sul territorio: chi è entrato irregolarmente nel paese, chi ha espresso intenzione di richiedere asilo e chi effettivamente ha proceduto con la richiesta. Sia il governo che le agenzie internazionali spiegano questo grosso divario tra intenzione espressa ed effettiva richiesta di asilo come indice del fatto che la maggior parte delle persone presenti sul territorio sono solamente in transito. Ma la realtà è che le cose potrebbero non essere così semplici come si vuole far credere. Molte delle persone che si incontrano nei campi e fuori dal “sistema” hanno con sé solamente la carta in cui hanno espresso intenzione di richiedere asilo, nella maggior parte dei casi scaduta (scade dopo 14 giorni, periodo entro il quale il richiedente deve procedere con la richiesta vera e propria) perché il personale degli uffici si rifiuta o non collabora nel procedere alla formalizzazione della richiesta. Allo scadere dei 14 giorni, la persona si ritrova nella condizione in cui ne può procedere con la richiesta di asilo, ne risulta essere un’entità legale all’interno del territorio bosniaco. In questo modo i numeri possono essere facilmente manipolati per esprimere qualcosa di ben lontano dalla realtà e al tempo stesso le persone si trovano in una situazione di pericolo, soggette a condizioni di illegalità e alla realtà del traffico di esseri umani. Uno dei fattori fondamentali che porta una grossa parte di queste persone in questo limbo di illegalità ed impossibilità di procedere alla legalizzazione (mettiamo da parte per un attimo l’impossibilità di accedere agli uffici di registrazione fuori dagli orari lavorativi, nei weekend, durante le festività, piuttosto che la difficoltà di comprendere cosa è scritto sui documenti scritti solo in lingua del posto, o ancora l’assenza di servizi informativi) è il fatto che la condizione necessaria per procedere alla richiesta di asilo nei 14 giorni a disposizione dall’entrata nel paese è di fornire un indirizzo di residenza in Bosnia e dato l’alto numero di persone presenti e la difficoltà di riuscire a trovare un posto in cui registrarsi regolarmente in un tempo così ristretto, questo ci riporta al punto inziale ovvero lo scadere dei 14 giorni e il passaggio al limbo legislativo.

Per quanto riguarda l’assistenza legale, è previsto dalla legge sull’asilo che ad ogni persona che esprima l’intenzione di richiedere asilo nel paese sia fornita assistenza gratuita. Assodato che non esiste al momento un’istituzione statale che si prenda carico di questa funzione nonostante prevista dalle leggi dello stesso stato, le persone che richiedono assistenza la ricevono da una grossa ONG bosniaca che si occupa di questioni legali, Vasa Prava, partner di UNHCR nel paese. L’associazione si occupa di richieste di asilo ormai da anni ma nonostante questo è rilevante far notare che nonostante fosse a conoscenza di quanto la procedura di richiesta di asilo sia complicata e mostri evidenti falle, nel corso del 2018 non ha mai pubblicato nessun tipo di report a proposito delle difficoltà di accesso per i migranti alla richiesta di asilo o alle difficoltà legali riscontrate da questi ultimi ogni giorno, cosa che invece ci si aspetterebbe da un’organizzazione della società civile che tratta diritti umani e protezione da violazioni e violenza. Tutte le informazioni raccolte da quest’ultima sono state trasferite solamente ad UNHCR, sponsor principale dell’ONG, che a sua volta ha reso pubblico quanto ritenuto rilevante.

Situazione sul campo

Cerchiamo ora di capire invece come si sono sviluppate le cose nelle diverse città protagoniste della questione migratoria facendo il punto sulla situazione alla fine del 2018.

Sarajevo

Si dall’inizio dell’anno in città erano presenti molte persone che hanno da subito ricevuto l’aiuto della popolazione impegnata nella distribuzione non organizzata di cibo, coperte e altri beni oltre che ad offrire anche riparo nelle proprie abitazioni. Intorno ad aprile circa 300 persone vivevano in uno dei parchi della città mentre era disponibile un’unica struttura ufficiale sul territorio, il centro Delijas, con una capienza di 150 posti ma situato in una zona non collegata al servizio di trasporti e lontana da negozi o altre strutture (la stazione di servizio più vicina dista 12km). In quel periodo UNHCR e IOM sono riuscite a fornire stanze in ostelli solamente ad alcune persone considerate come “vulnerabili”, spesso chiedendo il sostegno alle associazioni di volontari e ai cittadini presenti sul territorio per riuscire a raggiungere più persone. Questo approccio non sistematico ha però messo in condizione di vulnerabilità altri soggetti che non sono riusciti a ricevere il sostegno adeguato o gli stessi individui considerati vulnerabili: una donna è stata, ad esempio, allocata in una stanza di ostello con due uomini mentre il marito è stato lasciato in strada o, ancora, molte persone hanno contratto scabbia e pidocchi nei luoghi assegnati proprio da UNHCR. Tra maggio e giugno 250 persone sono state spostate in una struttura a Mostar ed il campo non ufficiale nel parco della città è stato evacuato. In ottobre è stato aperto il centro di transizione di Usivak, a circa 15 km dalla città, struttura precedentemente utilizzata come caserma militare, dove ho lavorato in questi mesi insieme a Collective Aid. Come già vi ho detto il campo ospita circa 500 persone ed è gestito da IOM e le condizioni di vita all’interno del campo si possono definire scarsamente dignitose, con molte persone costrette a dormire in letti a castello posti all’interno di grossi capannoni dove il riscaldamento non può che essere scadente e l’assenza di privacy e spazio personale è importante. Durante l’estate presso la stazione dei treni è cominciato un servizio di distribuzione di cibo gestito dai volontari dell’associazione che si è poi spostato un po’ più lontano dal centro città per questioni di sicurezza.

Mostar

Circa 250 persone, prevalentemente famiglie, vivono nel campo di Salakovac a Mostar gestito dal ministero della sicurezza e dal ministero per i diritti umani e i rifugiati. Il cibo è fornito dal personale della Croce Rossa locale mentre altre associazioni svolgono attività ricreative e sostegno psicologico (UNICEF, BH women e World Vision). La sicurezza è affidata allo stato e sono sempre presenti due guardie civili non armate anche dopo le 16, orario in cui tutte le altre associazioni lasciano il campo essendo terminata la giornata lavorativa. Il campo è molto calmo e le persone che lo abitano non lamentano nulla di particolare se non il fatto che non ci sia nulla da fare durante il giorno e nel pomeriggio in modo particolare. La struttura era un campo anche in precedenza e le famiglie dispongono di piccole case con ampie stanze bagni e cucine.

Bihac

Per via della vicinanza della città al confine croato molte persone si sono trovate a fermarsi in questa zona in attesa di riuscire ad attraversare il confine ed entrare nell’unione europea e il sostegno iniziale è arrivato anche in questo caso dalla popolazione locale. Il dormitorio studentesco abbandonato di Dacki e il parco limitrofo (Borici) sono stati poi designati dal sindaco della città come zone in cui alloggiare temporaneamente le persone presenti che da poche centinaia sono diventate 1200 alla fine dell’estate. Le condizioni di vita sono state particolarmente difficili con problemi legati a diversi ambiti, dalla sicurezza all’igiene fino al cibo e molte persone in condizioni di vulnerabilità (anziani, minori non accompagnati, malati) sono state lasciate a vivere in queste condizioni proibitive per diversi mesi. In molti casi i residenti di quelli che difficilmente possiamo definire veri e propri campi hanno lamentato abusi da parte della polizia e del personale di sicurezza senza ricevere attenzione nonostante le lamentele e le richieste di aiuto.

Tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate altre 100 persone vivevano in una pensione abbandonata vicino al fiume ma sono state successivamente evacuate e fatte spostare al dormitorio nonostante le condizioni di minima sicurezza del luogo e la presenza di trafficanti e altre attività criminali. Per avere un’idea della questione molte delle persone presenti sul territorio riferiscono che il prezzo per riuscire a farsi trasportare da Sarajevo a Trieste è di 4500€; queste condizioni fanno si che molti diventino vittime del traffico di esseri umani nonché di sfruttamento lavorativo dal momento che è chiaro che molti non hanno una disponibilità economica per affrontare una spesa del genere. Spesso accade che molti minori vengano assoldati dai trafficanti per “reclutare” altri clienti ricevendo in cambio la possibilità di essere trasportati “gratuitamente”. Molti altri provano ad attraversare il confine per conto proprio ma risulta chiaramente più complicato.

 L’hotel Sedra è un’altra struttura, sempre all’interno della città di Bihac, utilizzata dalla fine di liglio per ospitare famiglie e persone vulnerabili; il centro è gestito da IOM con l’aiuto di altre organizzazioni internazionali. Sia per quanto riguarda questa struttura così come in generale per il resto del paese i bambini non hanno avuto la possibilità di frequentare le scuole locali almeno fino a dicembre, fatto che ha contribuito, secondo alcune ricerche di UNHCR, a renderne ancora più problematica la situazione, tanto che un bambino su due mostra segnali di depressione o profondo sconforto, uno su tre ha problemi di sonno o incubi e uno su quattro problemi legati a rabbia, paura, ansia e irritabilità.

Nel mese di novembre è stata aperta un’altra struttura per ospitare migranti nella cittadina, si tratta di una ex fabbrica che in teoria avrebbe dovuto ospitare fino a 500 persone ma che in realtà ha visto vivere al suo interno fino a circa 200 persone in tende e container. Trattandosi di una struttura industriale, BIRA non risponde in modo adeguato agli standard solitamente richiesti per un campo profughi e sono state portate all’attenzione dei volontari e delle associazioni problemi legati al trattamento estremamente poco professionale del personale di sicurezza accusato di eccessi di violenza nei confronti dei residenti.

Velika Kladusa

Nella cittadina di Velika Kladusa, anch’essa nei pressi del confine croato, tra febbraio e marzo molte persone hanno cominciato a popolare il parco della città con tende finchè il comune non ha deciso di evacuare il parco e spostare le persone in un’area nei pressi dello stadio comunale dove questi ultimi potessero stabilirsi con le proprie tende. Il comune ha fin da subito fornito elettricità, personale di sicurezza e pulizia e insieme ad IOM ha installato dei bagni chimici mentre IOM ed EMMAUS insieme alla Croce Rossa sono stati incaricati della distribuzione di cibo che però è sempre risultata irregolare se non addirittura assente in certi giorni. In questo campo autogestito medici senza frontiere e associazioni di volontari internazionali sono stati e sono il supporto principale alle persone in transito. Il campo è stato poi evacuato nel mese di novembre sotto la pressione dell’opinione pubblica e più di 600 persone sono state spostate in una struttura industriale dove non è stato fornito nessun tipo di attività di sostegno agli ospiti e le condizioni di vita sono risultate fin da subito molto difficili e degradanti. Oltre a ciò, all’interno della struttura non è prevista una zona dedicata ai minori non accompagnati che pure sono presenti.

Kljuc e Velecevo

L’atmosfera nella regione di Una Sana, a nord ovest dello stato e al confine con la croazia, è molto cambiata durante l’estate, passando dall’essere particolarmente accogliente all’essere addirittura pericolosa per le persone in transito o in attesa di attraversare il confine, in larga parte per via dell’atteggiamento delle autorità locali e della polizia. Anche la libertà di movimento all’interno della regione è stata limitata, tanto che le persone non possono spostarsi da Bihac a Velika Kladusa, scelta che ha portato a numerose violazioni dei diritti umani in campo legale come ad esempio la pratica di far scendere da autobus e treni i migranti in arrivo da Sarajevo per forzarli a ritornare indietro (a proprie spese) per evitare l’arrivo di nuove persone nella regione. Alcune persone sono state respinte al di fuori della regione, nei pressi della cittadina di Kljuc. Velecevo, allo stesso modo, è diventata una sorta di frontiera interna dove la polizia ferma e respinge i migranti in transito ufficialmente “per gestire i flussi migratori”. Il luogo dove i migranti vengono fermati e lasciati dalla polizia non offre nessun tipo di riparo e solo la Croce Rossa e alcuni volontari internazionali offrono supporto alle persone presenti sul luogo. Nell’area di Velika Kladusa le persone che si sono offerte di ospitare migranti nelle proprie abitazioni sono state minacciate di multe e sanzioni da parte delle autorità in un clima che rende impossibile collaborazione e solidarietà.

Ci sarebbero ancora mille informazioni da riportare, numeri da richiamare e riflessioni da proporre ma sono sicuro che tutte queste righe siano già abbastanza per riuscire a chiarirsi un po’ le idee su quello che ci sta succedendo intorno a davvero pochi chilometri di distanza. Penso davvero che riuscire ad informarsi e avere lo stimolo, la voglia e l’impegno necessari per farlo in modo adeguato sia lo strumento migliore per andare al cuore di una faccenda ed evitare di costruire falsi miti ben lontani dalla realtà. Ogni giorno che passo qui tra Bosnia e Serbia a contatto diretto con la realtà della questione migratoria, imparo qualcosa di nuovo, scopro sfaccettature che non prima d’oggi non avevo considerato e conosco situazioni prima sconosciute sia per quanto riguarda la situazione politica e il contesto dei paesi in cui mi trovo, sia per quel che invece riguarda le persone con cui sto lavorando e le esperienze che queste si trovano ad affrontare. Spesso mi capita di ascoltare o parlare con persone che si costruiscono un’opinione a partire da alcuni slogan completamente vuoti di significato e mi stupisce scoprire che più siamo impreparati su un argomento più siamo propensi a sostenere ad ogni costo la nostra visione delle cose, senza considerare la possibilità che le cose stiano diversamente. Probabilmente è per via della paura che discutere con qualcuno che ha qualcosa da dirci e ne sa più di noi ci possa mettere di fronte alla nostra inadeguatezza o impreparazione. Forse dovremmo cercare di uscire dall’ottica secondo la quale non conoscere, o conoscere meno di qualcun altro, sia qualcosa di negativo, da nascondere quasi come fosse una debolezza, anche a costo di difendere strenuamente posizioni fondate sull’assenza di conoscenza, così da cominciare a considerare in senso positivo il confronto, il dialogo, il fatto che qualcuno abbia qualcosa da insegnarci. Mi viene da pensare che questo abbia delle profonde ripercussioni sul mondo in cui viviamo, sulla politica che ci riguarda tutti i giorni, perché probabilmente la paura di sembrare inadeguati e di passare per qualcuno che non sa le cose ci porta ad alzare la voce per coprire quella di chi invece non deve nascondersi perché effettivamente sa di cosa sta parlando e di conseguenza a ricercare nel mondo della politica un rappresentante che sia in grado di gridare più forte di tutti, di non farsi insegnare niente da nessuno, che non ha bisogno di discutere delle cose e ascoltare le opinioni degli altri, un rappresentante che in questo modo giustifichi il nostro comportamento quotidiano.

Spero che queste righe possano essere un modo per metterci in contatto, creare una rete, comunicare e scambiare informazioni per creare o accrescere quella che viene definita coscienza collettiva perché credo davvero che gli individui possano fare la differenza con le proprie azioni, siano esse un lavoro vero e proprio sul campo o anche solo uno scambio di informazioni. Ho scelto di smettere di credere che una goccia in un oceano non cambi assolutamente niente, perché il cambiamento all’interno di un gruppo di persone nasce dall’azione dei singoli individui e si sviluppa attraverso la condivisione comunitaria e se state leggendo queste righe vuol dire che anche voi fate parte insieme a me di un cambiamento.

Spero di riuscire a scrivere nei prossimi giorni per raccontarvi al più presto del nuovo progetto a cui sto lavorando con l’associazione qui a Belgrado!

A presto,

Davide

Quindi vai in Bosnia?

A – Ma dai ma ti sei laureato!? Complimenti! E ora che fai? Vai avanti? Cerchi lavoro?
B – Dai sì ce l’ho fatta! Ora beh, in realtà tra qualche giorno parto e vado in Bosnia!
A – In Bosnia (ma dov’è?!)?? e cosa ci vai a fare fin là?
B – Un po’ di volontariato, ma è una cosa un po’ lunga da spiegare…


Sono in Bosnia, appena fuori Sarajevo, da più o meno una settimana e finalmente riesco a buttare giù qualche riga per spiegarvi un po’ cosa sono venuto a fare fin qui. Potrebbe venirne fuori qualcosa di un po’ noioso, ma se avete qualche minuto e siete curiosi sono pronto a dare qualche spiegazione!


Prima di parlare di quello che sto facendo è però necessario capire cosa stia succedendo in questi mesi in Bosnia e avere un po’ più chiaro il quadro della situazione, almeno in linea generale.
Questa nazione si trova in una zona particolare dei Balcani dal momento che, mettendo da parte la Grecia, è situata al confine con il primo blocco di stati che fanno parte dell’Unione Europea (confina con la Croazia) ed è anche molto spostata verso alcune delle sue nazioni più centrali. Come forse saprete, dopo lo scoppio della guerra in Siria e anche per via delle vicende che riguardano altri paesi altamente instabili, come ad esempio Pakistan, Afghanistan, Iraq o gli stati africani, si è aperta un’importante rotta migratoria (chiamata appunto “rotta balcanica”) che porta persone in fuga da scontri, persecuzioni e forte instabilità ad attraversare il Medio Oriente per giungere in Europa attraverso la Turchia. Questa rotta prevedeva inizialmente l’attraversamento della Grecia e della Macedonia per poi trovarsi ad attraversare la Serbia e giungere dunque in Croazia o Ungheria ed avere così accesso alle altre nazioni europee. Tra il 2015 e il 2016 però, in seguito alla decisione degli stati europei più esterni di chiudere i propri confini, la rotta è stata formalmente smantellata, ma questo non ha impedito ai migranti di provare (e riuscire) ad attraversare i confini dei diversi stati per raggiungere l’Europa. Molte delle persone giunte dalla vicina Turchia, anch’essa pedina fondamentale nella scacchiera delle migrazioni verso il continente, sono rimaste e rimangono tutt’oggi all’interno degli stati posti al di fuori dei confini europei, quali Serbia e Bosnia, in attesa di riuscire a trovare un modo di oltrepassare i confini presidiati.

Tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 la rotta ha portato i migranti a spostarsi verso la Bosnia, fino ad allora non considerata, ed i motivi sono svariati: risulta praticamente impossibile oltre che altamente rischioso e anche poco auspicabile oltrepassare il confine serbo che porta in Ungheria data la forte presenza di presidi lungo il confine (esiste una vera e propria recinzione) e la violenza con cui la polizia e alcuni cittadini legittimati all’uso di armi rispondono ai tentativi di ingresso non curandosi in nessun modo dei diritti dei richiedenti asilo o protezione; da metà del 2017 circa la situazione al confine serbo-croato è diventata sempre più tesa visti gli episodi di violenza e i respingimenti illegali perpetrati dalla polizia croata (accertati dalle associazioni che lavorano lungo il confine e prontamente negati dalle autorità); allo stesso tempo è diventato sempre più difficile cercare di attraversare il confine illegalmente a piedi o nascosti in mezzi in transito quali autobus o treni per via dell’aumento dei controlli e dei respingimenti. È da sottolineare che qualsiasi respingimento avvenga in territorio croato (Europa) risulta illegale dal momento che per legge chiunque giunga in territorio croato ha diritto a presentare domanda di asilo o protezione. Per questi motivi, dunque, la Bosnia ha cominciato a rappresentare una valida alternativa per le persone in transito, essendo tra l’altro un territorio il cui confine con la Croazia risulta meno protetto e molto più ampio rispetto a quello serbo, e questo ci riporta al punto di partenza.

Ad oggi in territorio bosniaco risultano presenti alcune migliaia di persone in attesa di attraversare i confini e queste sono distribuite in pochi campi profughi ufficiali, novità degli ultimi mesi dato che fino a poco tempo fa lo stato non era dotato di nessun tipo di struttura di accoglienza e tutt’ora sono ancora poche quelle adatte, e in alcune città (Sarajevo in primis) in strutture abbandonate, appartamenti o campi profughi informali. La situazione che le persone si trovano ad affrontare è ovviamente diversa a seconda che esse si trovino nei campi o in città, dal momento che, per quanto poco accoglienti, i campi riescono quantomeno a soddisfare alcune necessità primarie, mentre in strada le difficoltà si moltiplicano.


Torniamo a noi.
Come dicevo, sono ormai alcuni giorni che mi trovo a Sarajevo dove lavoro con Collective Aid (vai alla sezione associazioni per capirne di più), un’associazione che si occupa di gestire la preparazione e la distribuzione di tre pasti giornalieri all’interno del campo ufficiale che risulta attualmente quello maggiormente organizzato, Ušivak Transit/Reception Centre (Ušivak TRC), e collabora con altre associazioni e realtà locali nella distribuzione di due pasti giornalieri in città per coloro che non risiedono nel campo. La situazione è molto diversa rispetto a quella che si presenta nei campi al confine con la Croazia (Bihac o Velika Kladusa) perché nel nostro caso siamo in presenza di persone che stanno attraversando il paese e che quindi dovranno affrontare ancora diversi chilometri prima di tentare di superare il confine, azione che viene definita, in modo piuttosto macabro, “gaming”: quando una persona decide di tentare l’attraversamento si dice che “giocherà/azzarderà” (to go gaming) nel senso che si tratta di una vera e propria sfida contro se stessi, contro la polizia e contro la natura del luogo che, soprattutto in inverno, non è di certo benevola.
Le persone che si trovano a Sarajevo, uomini soli o intere famiglie con bambini al seguito, attendono dunque di trovare un modo per attraversare il confine pagando ad esempio dei trafficanti che nella maggior parte dei casi li deruberanno e magari li picchieranno, o utilizzando dei mezzi che per qualche motivo potrebbero essere meno controllati. Molto spesso accade però che chi tenta di oltrepassare il confine venga respinto, derubato, picchiato e si ritrovi dunque al punto di partenza.

Per quanto riguarda l’attività all’interno del campo, ogni giorno due squadre di volontari si alternano all’interno della cucina del campo e del container adibito a zona di preparazione per il cibo: la prima si occupa di preparare e distribuire colazione e pranzo dalle sette e mezza di mattina alle quindici e trenta circa, mentre la seconda si occupa della cena e di cominciare la preparazione per il giorno successivo dando il cambio alla prima squadra e proseguendo fino alle ventidue circa con le pulizie finali. Dalla mattina alla sera i volontari si spostano tra cucina, container e magazzino intenti a preparare, cuocere, lavare e pulire tutto in modo da riuscire a servire i tre pasti. Ogni squadra è composta generalmente da 8 persone che si dividono tra la cucina vera e propria dove vengono cucinate le pietanze e il container dove viene invece preparato tutto ciò che è necessario alla cucina. Punto di forza di questa associazione, che è anche il motivo per cui è stata richiesta per l’intera gestione della cucina del campo, è il fatto che i volontari non lavorano solo per produrre qualcosa di sufficiente alla sopravvivenza ma per riuscire a preparare dei pasti che possano chiamarsi tali, composti da pietanze vicine alle tradizioni dei migranti, che possano soddisfare tutti in modo tale che chi li riceve riesca a sentirsi un po’ meno come un pezzo di carta con sopra la propria foto e un numero identificativo e un po’ più una persona, la cui dignità viene rispettata.

Penso che questo sia uno degli aspetti del nostro lavoro a cui teniamo maggiormente e che spesso viene a mancare soprattutto quando si tratta di organizzazioni governative: l’idea è quella di riuscire non solo a risolvere un’urgenza (riuscire a mangiare abbastanza) ma anche a stabilire un rapporto con le persone che si cerca di aiutare, per uscire dalla logica verticale dell’aiuto calato dall’alto, distaccato, spersonalizzato e spersonalizzante e costruirne una orizzontale caratterizzata dal dialogo, dalla comunicazione necessaria per comprendere quelle necessità che spesso non sono evidenti e non vengono esplicitate ma risultano maggiormente importanti. Dobbiamo, secondo me, uscire dall’ottica secondo la quale siamo qui per portare il nostro aiuto salvifico e che ciò che noi riteniamo essere giusto e prioritario lo sia effettivamente, per cominciare a capire che si tratta di una relazione e non di un’azione, per cui non siamo gli unici protagonisti ma abbiamo un interlocutore attivo davanti a noi con cui costruire ciò che facciamo. È chiaro che devono esistere delle gerarchie, delle regole da rispettare, delle condizioni per riuscire a convivere, ma il modo in cui queste vengono poste o imposte cambia radicalmente il risultato delle nostre azioni.

Per quanto la mia esperienza sul campo sia limitata, ne sono consapevole, vi assicuro che la differenza è davvero lampante anche in un atto che può sembrare così banale come la distribuzione di un pasto: la differenza tra un “pacco alimentare” consegnato dall’esercito all’interno di un campo profughi, contenente le stesse cose indipendentemente dal tipo di persone a cui è rivolto, con troppo poco di ciò che è realmente necessario e troppo di ciò che invece non serve e produce solo rifiuti e sprechi, e un pasto preparato e consegnato da un’associazione come Collective Aid, che cerca di capire cosa vogliono e di cosa necessitano le persone che si trova davanti e prova, nei limiti del possibile, ad accontentarle, è veramente enorme. Quando passi ad un uomo di mezza età, che potrebbe benissimo essere tuo padre, un piatto che gli ricorda qualcosa di familiare nei sapori e negli odori e quell’uomo ti guarda con un’espressione mista di stupore, felicità e gratitudine e ti ringrazia, proprio in quel momento, le ore che hai passato a lavare e tagliare cesti infiniti di patate e cipolle e i dolori a muscoli che non pensavi di avere lungo tutta la schiena, è come se non ci fossero mai stati.

La distribuzione di pasti in città si svolge in un contesto completamente diverso. Dopo aver preparato, in collaborazione con Aid Birgade (associazione di volontari indipendenti), il necessario per la distribuzione del pranzo o della cena in un piccolo chiosco adibito a cucina, ci si avvia verso un parcheggio un po’ defilato appena fuori dalla città nei pressi di una moschea. Qui, come già sa chi viene a mangiare, sistemiamo un tavolo su cui prepariamo tutto l’occorrente per la distribuzione, e davanti ad esso formiamo due file abbastanza ordinate. A ciascuno viene dunque servita una porzione di quello che è stato preparato insieme a del pane e, nel caso se ne volesse ancora, c’è la possibilità di rimettersi in fila e prenderne ancora. Mentre alcuni volontari servono ed altri controllano che le file scorrano senza problemi e senza che si formi calca vicino al tavolo, le persone scorrono e vengono servite circa cento porzioni anche se il numero è molto variabile a seconda dei giorni, delle condizioni meteorologiche e degli arrivi o delle partenze. Quando le file si esauriscono, ne rimane una soltanto per la distribuzione di cibo a chi ancora non lo avesse ricevuto o ne volesse ancora, mentre l’altra viene utilizzata per distribuire del te caldo fino a quando tutti ne abbiano ricevuto a sufficienza.

Durante queste distribuzioni si incontrano facce familiari che si vedono anche al campo, qualcuno di nuovo e qualcun altro che invece si ritrova sempre alle distribuzioni in un clima che solitamente è abbastanza disteso tra mille lingue che si mischiano, c’è infatti chi parla arabo, chi turco, farsi o ancora francese e italiano, c’è chi ringrazia e se ne va, chi rimane in compagnia di altri e chi scherza e grida. È un momento molto diverso rispetto alla distribuzione all’interno del campo perché, trovandoci in un contesto molto più informale e completamente autogestito, tutto risulta più umano e diretto, ma allo stesso tempo è una situazione molto intensa, perché si tocca con mano, senza filtri, quello che succede. Sei dentro la famosa crisi migratoria, sei dentro la rotta balcanica, sei sulla strada di chi arriva da un luogo lontano e lascia tutto sperando di riuscire a spingersi chissà fin dove.

Questo contesto mi riporta indietro alle distribuzioni fatte per le strade di Salonicco, in Grecia, con IHA e Team Bananas, quando ci spostavamo tra la stazione ferroviaria e alcuni edifici abbandonati per distribuire generi alimentari e altri prodotti per l’igiene o per vestirsi. In questo caso le distribuzioni sono più organizzate e trovandoci appena fuori dalla città, non siamo a contatto diretto con i posti in cui queste persone trovano riparo per dormire, come invece accadeva in Grecia, ma le sensazioni sono le stesse e, personalmente, vengo sempre travolto da un misto di emozioni.

Da un lato, distribuire quei piatti e guardare in faccia ognuna di quelle persone mi fa stare bene nel profondo, mi fa pensare che sono esattamente nel posto in cui voglio e devo essere in questo momento (quanto è importante!), mi fa pensare che per quanto piccolo sia, questo gesto possa davvero dare qualcosa a qualcuno, ed è come se in ogni momento sentissi un’energia travolgente che mi fa dimenticare di essere qualche grado sotto zero, dolorante per tutto il tran tran giornaliero e mi fa pensare di poter fare qualsiasi cosa. Essere qui in questo momento, con questo piatto in mano, è la cosa più importante. Dall’altro, anche se cerco di trattenere un fiume in piena di pensieri, dubbi e domande, mi sento terribilmente confuso, perché non sono sicuro di essere in grado di capire quello che sta succedendo alla persona che mi ha appena ringraziato per un pezzo di pane in più, o ancor di più quello che mi sta succedendo tutto intorno. È come se mi guardassi dall’alto e piano piano si ingrandisse sempre di più la visuale fino a comprendere l’intera città, e poi percorressi a ritroso tutta la strada che queste persone hanno fatto per arrivare in questo preciso punto dove mi trovo anche io fino ad arrivare al punto da cui tutto è partito.

Cosa succede? Perché te ne sei andato? Perché tutta la tua città è stata distrutta? Per quale motivo i tuoi fratelli sono morti nell’esplosione di una bomba? Chi ti impedisce di essere ciò che sei, di fare ciò che ti fa star bene, di vivere la tua vita?

Un po’ mi perdo in queste domande e un po’ mi perdo, irrequieto, nel mio senso di inadeguatezza in questo mondo che faccio fatica a capire ma che in qualche modo voglio scoprire per risolvere questo rebus infinito che ho in testa. Mi capita, a volte, di lasciarmi prendere dallo sconforto, dal senso di impotenza, dall’idea che per quanto possiamo cercare di cambiare le cose ci siano dei muri invalicabili, delle barriere che non si possono abbattere, fisiche certo, ma soprattutto mentali, di coscienza, di negligenza. Vorrei in quel momento riuscire a condividere con ogni singola persona che conosco le immagini che mi scorrono davanti agli occhi, i volti di queste persone, le sensazioni che provo, perché, al di là della retorica, sono sicuro che siamo noi stessi il primo ostacolo alla soluzione di un problema che ancora non ho capito del tutto.

Si torna sempre a casa, sia dal campo che dalla distribuzione, e ci si trova ad un certo punto della serata più o meno tutti insieme nella cucina e nella sala di questa grande casa in cui vivono una ventina di volontari che arrivano da tutto il mondo. È il momento che preferisco probabilmente, sul volto di ciascuno di noi puoi leggere davvero chiaramente tutto quello che ha passato durante la giornata, la stanchezza per le tante ore passate a lavorare, la serenità di essere a casa e in compagnia, la gioia per un po’ di cibo e qualcosa da bere, l’irrequietezza per qualche dubbio o domanda irrisolta o per una giornata andata un po’ storta (non fila sempre tutto liscio) e io mi sento bene, stanco ma soddisfatto, non tanto per quello che ho fatto ma per tutto quello che mi circonda, per queste persone che condividono con me i lati positivi e negativi di un’esperienza del genere e che, come me, sono alla ricerca di qualcosa che li ha portati in questa stanza.


A presto,
Davide