Il Punto – Bosnia 2018

Sono sull’autobus che da Sarajevo mi porta a Belgrado, catapultandomi da un progetto all’altro nella mia avventura insieme a Collective Aid nei Blacani e dopo essere tornato per un paio di settimane in Bosnia è arrivato il momento di fare il punto su tutto quello che è successo nel 2018 in questo paese cercando di raccogliere tutte le informazioni accumulate nel corso dei mesi.

Tornare a Sarajevo è stato molto emozionante. Incontrare di nuovo alcune delle persone con cui ho lavorato e condiviso molto negli ultimi tempi mi ha fatto un immenso piacere, un po’ come tornare a casa dopo una breve pausa. Riprendere il lavoro nel campo è stato molto motivante ma da subito molto intenso e faticoso per la mole di lavoro e l’aumento di ospiti all’interno della struttura; oltre al lavoro in cucina siamo stati coinvolti in parte anche nelle attività di intrattenimento durante il giorno cercando di offrire la possibilità di passare il tempo anche facendo un po’ di sport e giocando a calcio o cricket.

Questa volta vorrei però cercare di dare un’idea generale di quello che è successo all’interno dell’intero paese nel corso del 2018, riportando molte delle informazioni contenute in un piccolo libro appena pubblicato che contiene un report molto dettagliato sulla situazione attuale: “People on the Move in Bosnia and Herzegovina in 2018: stuck in the corridors to the EU” di Gorana Mlinarevic e Nidzara Ahmetasevic, giornalisti, attivisti e volontari che hanno girato il paese per documentare la situazione. Probabilmente sarà un articolo un po’ lungo e con molte informazioni magari anche un po’ noiose, ma sono sicuro che possa essere un modo molto comodo e utile per capire come si stiano evolvendo le cose in Bosnia ed essere aggiornati.  

Contesto e registrazione

Come ho già accennato in un precedente articolo, la Bosnia presenta diverse peculiarità sia dal punto geografico, data la posizione che oggi la rende centrale all’interno della rotta balcanica, sia per quel che riguarda la sua storia recente a partire dalla guerra civile degli anni ’90 fino ai giorni nostri. Proprio per via della sua disfunzionalità politica e logistica dovuta al contesto post-conflitto, lo stato non risulta ancora in grado di rispondere in maniera adeguata alle emergenze umanitarie (si pensi alla crisi seguita alle inondazioni del 2004) e dato che è formalmente stato negli ultimi anni sotto il semi-protettorato della comunità internazionale, la presenza di agenzie internazionali sul territorio è particolarmente significativa e sono ancora molti gli attori protagonisti dei processi decisionali a livello statale, fatto che contribuisce al malfunzionamento della risposta alle crisi sul territorio. Queste considerazioni, oltre al fatto che la Bosnia risulta ad oggi una delle nazioni più corrotte e instabili in Europa, hanno portato l’unione europea ad affidare i propri fondi (tra i 7 e i 10 milioni di euro) per affrontare la crisi migratoria alle agenzie ad essa collegate (UNHCR, UNICEF, IOM) invece che direttamente allo stato. Questa decisione potrebbe essere contesta, sostenendo che le istituzioni statali hanno vincoli di trasparenza più rigidi rispetto alle agenzie internazionali oltre al fatto che l’assunzione di responsabilità nella gestione dei fondi avrebbe potuto portare ad un miglioramento delle funzionalità di uno stato che ancora fatica ad uscire da un periodo di crisi prolungato. Nonostante queste considerazioni, l’UE ha deciso di agire secondo altri principi e questo ha portato ad una situazione in cui è sempre possibile rimpallare responsabilità e colpe da un attore all’altro e ciascuno di essi ha delle scuse per la proprio inadempienza: per capirci, lo stato sostiene che essendo i fondi nelle mani delle agenzie internazionali questo non gli permette di svolgere i compiti che effettivamente gli spettano in modo adeguato mentre d’altro canto le agenzie internazionali lamentano le inadempienze e l’incapacità dello stato, che per legge è responsabile della risposta alla crisi attraverso i suoi ministeri, di creare le condizioni adeguate per collaborare e utilizzare le risorse. A tal proposito risulta utile ricordare che dal 2004 UNHCR ha passato la responsabilità della gestione delle procedure di richiesta di status di rifugiato allo stato, affermando, dopo aver collaborato alla creazione e all’adozione dell’apparato legislativo in tale campo, che il governo della Bosnia possiede un sistema nazionale di asilo efficiente.

Per quanto riguarda i numeri della crisi, a novembre 2018 il numero di persone di cui è stato registrato l’ingresso nel paese era pari a 23’123 delle quali 21’759 hanno espresso l’intenzione di richiedere asilo politico in Bosnia e 1’356 hanno effettivamente completato la richiesta. I numeri presentati dal governo sembrano dunque indicare tre categorie di persone presenti sul territorio: chi è entrato irregolarmente nel paese, chi ha espresso intenzione di richiedere asilo e chi effettivamente ha proceduto con la richiesta. Sia il governo che le agenzie internazionali spiegano questo grosso divario tra intenzione espressa ed effettiva richiesta di asilo come indice del fatto che la maggior parte delle persone presenti sul territorio sono solamente in transito. Ma la realtà è che le cose potrebbero non essere così semplici come si vuole far credere. Molte delle persone che si incontrano nei campi e fuori dal “sistema” hanno con sé solamente la carta in cui hanno espresso intenzione di richiedere asilo, nella maggior parte dei casi scaduta (scade dopo 14 giorni, periodo entro il quale il richiedente deve procedere con la richiesta vera e propria) perché il personale degli uffici si rifiuta o non collabora nel procedere alla formalizzazione della richiesta. Allo scadere dei 14 giorni, la persona si ritrova nella condizione in cui ne può procedere con la richiesta di asilo, ne risulta essere un’entità legale all’interno del territorio bosniaco. In questo modo i numeri possono essere facilmente manipolati per esprimere qualcosa di ben lontano dalla realtà e al tempo stesso le persone si trovano in una situazione di pericolo, soggette a condizioni di illegalità e alla realtà del traffico di esseri umani. Uno dei fattori fondamentali che porta una grossa parte di queste persone in questo limbo di illegalità ed impossibilità di procedere alla legalizzazione (mettiamo da parte per un attimo l’impossibilità di accedere agli uffici di registrazione fuori dagli orari lavorativi, nei weekend, durante le festività, piuttosto che la difficoltà di comprendere cosa è scritto sui documenti scritti solo in lingua del posto, o ancora l’assenza di servizi informativi) è il fatto che la condizione necessaria per procedere alla richiesta di asilo nei 14 giorni a disposizione dall’entrata nel paese è di fornire un indirizzo di residenza in Bosnia e dato l’alto numero di persone presenti e la difficoltà di riuscire a trovare un posto in cui registrarsi regolarmente in un tempo così ristretto, questo ci riporta al punto inziale ovvero lo scadere dei 14 giorni e il passaggio al limbo legislativo.

Per quanto riguarda l’assistenza legale, è previsto dalla legge sull’asilo che ad ogni persona che esprima l’intenzione di richiedere asilo nel paese sia fornita assistenza gratuita. Assodato che non esiste al momento un’istituzione statale che si prenda carico di questa funzione nonostante prevista dalle leggi dello stesso stato, le persone che richiedono assistenza la ricevono da una grossa ONG bosniaca che si occupa di questioni legali, Vasa Prava, partner di UNHCR nel paese. L’associazione si occupa di richieste di asilo ormai da anni ma nonostante questo è rilevante far notare che nonostante fosse a conoscenza di quanto la procedura di richiesta di asilo sia complicata e mostri evidenti falle, nel corso del 2018 non ha mai pubblicato nessun tipo di report a proposito delle difficoltà di accesso per i migranti alla richiesta di asilo o alle difficoltà legali riscontrate da questi ultimi ogni giorno, cosa che invece ci si aspetterebbe da un’organizzazione della società civile che tratta diritti umani e protezione da violazioni e violenza. Tutte le informazioni raccolte da quest’ultima sono state trasferite solamente ad UNHCR, sponsor principale dell’ONG, che a sua volta ha reso pubblico quanto ritenuto rilevante.

Situazione sul campo

Cerchiamo ora di capire invece come si sono sviluppate le cose nelle diverse città protagoniste della questione migratoria facendo il punto sulla situazione alla fine del 2018.

Sarajevo

Si dall’inizio dell’anno in città erano presenti molte persone che hanno da subito ricevuto l’aiuto della popolazione impegnata nella distribuzione non organizzata di cibo, coperte e altri beni oltre che ad offrire anche riparo nelle proprie abitazioni. Intorno ad aprile circa 300 persone vivevano in uno dei parchi della città mentre era disponibile un’unica struttura ufficiale sul territorio, il centro Delijas, con una capienza di 150 posti ma situato in una zona non collegata al servizio di trasporti e lontana da negozi o altre strutture (la stazione di servizio più vicina dista 12km). In quel periodo UNHCR e IOM sono riuscite a fornire stanze in ostelli solamente ad alcune persone considerate come “vulnerabili”, spesso chiedendo il sostegno alle associazioni di volontari e ai cittadini presenti sul territorio per riuscire a raggiungere più persone. Questo approccio non sistematico ha però messo in condizione di vulnerabilità altri soggetti che non sono riusciti a ricevere il sostegno adeguato o gli stessi individui considerati vulnerabili: una donna è stata, ad esempio, allocata in una stanza di ostello con due uomini mentre il marito è stato lasciato in strada o, ancora, molte persone hanno contratto scabbia e pidocchi nei luoghi assegnati proprio da UNHCR. Tra maggio e giugno 250 persone sono state spostate in una struttura a Mostar ed il campo non ufficiale nel parco della città è stato evacuato. In ottobre è stato aperto il centro di transizione di Usivak, a circa 15 km dalla città, struttura precedentemente utilizzata come caserma militare, dove ho lavorato in questi mesi insieme a Collective Aid. Come già vi ho detto il campo ospita circa 500 persone ed è gestito da IOM e le condizioni di vita all’interno del campo si possono definire scarsamente dignitose, con molte persone costrette a dormire in letti a castello posti all’interno di grossi capannoni dove il riscaldamento non può che essere scadente e l’assenza di privacy e spazio personale è importante. Durante l’estate presso la stazione dei treni è cominciato un servizio di distribuzione di cibo gestito dai volontari dell’associazione che si è poi spostato un po’ più lontano dal centro città per questioni di sicurezza.

Mostar

Circa 250 persone, prevalentemente famiglie, vivono nel campo di Salakovac a Mostar gestito dal ministero della sicurezza e dal ministero per i diritti umani e i rifugiati. Il cibo è fornito dal personale della Croce Rossa locale mentre altre associazioni svolgono attività ricreative e sostegno psicologico (UNICEF, BH women e World Vision). La sicurezza è affidata allo stato e sono sempre presenti due guardie civili non armate anche dopo le 16, orario in cui tutte le altre associazioni lasciano il campo essendo terminata la giornata lavorativa. Il campo è molto calmo e le persone che lo abitano non lamentano nulla di particolare se non il fatto che non ci sia nulla da fare durante il giorno e nel pomeriggio in modo particolare. La struttura era un campo anche in precedenza e le famiglie dispongono di piccole case con ampie stanze bagni e cucine.

Bihac

Per via della vicinanza della città al confine croato molte persone si sono trovate a fermarsi in questa zona in attesa di riuscire ad attraversare il confine ed entrare nell’unione europea e il sostegno iniziale è arrivato anche in questo caso dalla popolazione locale. Il dormitorio studentesco abbandonato di Dacki e il parco limitrofo (Borici) sono stati poi designati dal sindaco della città come zone in cui alloggiare temporaneamente le persone presenti che da poche centinaia sono diventate 1200 alla fine dell’estate. Le condizioni di vita sono state particolarmente difficili con problemi legati a diversi ambiti, dalla sicurezza all’igiene fino al cibo e molte persone in condizioni di vulnerabilità (anziani, minori non accompagnati, malati) sono state lasciate a vivere in queste condizioni proibitive per diversi mesi. In molti casi i residenti di quelli che difficilmente possiamo definire veri e propri campi hanno lamentato abusi da parte della polizia e del personale di sicurezza senza ricevere attenzione nonostante le lamentele e le richieste di aiuto.

Tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate altre 100 persone vivevano in una pensione abbandonata vicino al fiume ma sono state successivamente evacuate e fatte spostare al dormitorio nonostante le condizioni di minima sicurezza del luogo e la presenza di trafficanti e altre attività criminali. Per avere un’idea della questione molte delle persone presenti sul territorio riferiscono che il prezzo per riuscire a farsi trasportare da Sarajevo a Trieste è di 4500€; queste condizioni fanno si che molti diventino vittime del traffico di esseri umani nonché di sfruttamento lavorativo dal momento che è chiaro che molti non hanno una disponibilità economica per affrontare una spesa del genere. Spesso accade che molti minori vengano assoldati dai trafficanti per “reclutare” altri clienti ricevendo in cambio la possibilità di essere trasportati “gratuitamente”. Molti altri provano ad attraversare il confine per conto proprio ma risulta chiaramente più complicato.

 L’hotel Sedra è un’altra struttura, sempre all’interno della città di Bihac, utilizzata dalla fine di liglio per ospitare famiglie e persone vulnerabili; il centro è gestito da IOM con l’aiuto di altre organizzazioni internazionali. Sia per quanto riguarda questa struttura così come in generale per il resto del paese i bambini non hanno avuto la possibilità di frequentare le scuole locali almeno fino a dicembre, fatto che ha contribuito, secondo alcune ricerche di UNHCR, a renderne ancora più problematica la situazione, tanto che un bambino su due mostra segnali di depressione o profondo sconforto, uno su tre ha problemi di sonno o incubi e uno su quattro problemi legati a rabbia, paura, ansia e irritabilità.

Nel mese di novembre è stata aperta un’altra struttura per ospitare migranti nella cittadina, si tratta di una ex fabbrica che in teoria avrebbe dovuto ospitare fino a 500 persone ma che in realtà ha visto vivere al suo interno fino a circa 200 persone in tende e container. Trattandosi di una struttura industriale, BIRA non risponde in modo adeguato agli standard solitamente richiesti per un campo profughi e sono state portate all’attenzione dei volontari e delle associazioni problemi legati al trattamento estremamente poco professionale del personale di sicurezza accusato di eccessi di violenza nei confronti dei residenti.

Velika Kladusa

Nella cittadina di Velika Kladusa, anch’essa nei pressi del confine croato, tra febbraio e marzo molte persone hanno cominciato a popolare il parco della città con tende finchè il comune non ha deciso di evacuare il parco e spostare le persone in un’area nei pressi dello stadio comunale dove questi ultimi potessero stabilirsi con le proprie tende. Il comune ha fin da subito fornito elettricità, personale di sicurezza e pulizia e insieme ad IOM ha installato dei bagni chimici mentre IOM ed EMMAUS insieme alla Croce Rossa sono stati incaricati della distribuzione di cibo che però è sempre risultata irregolare se non addirittura assente in certi giorni. In questo campo autogestito medici senza frontiere e associazioni di volontari internazionali sono stati e sono il supporto principale alle persone in transito. Il campo è stato poi evacuato nel mese di novembre sotto la pressione dell’opinione pubblica e più di 600 persone sono state spostate in una struttura industriale dove non è stato fornito nessun tipo di attività di sostegno agli ospiti e le condizioni di vita sono risultate fin da subito molto difficili e degradanti. Oltre a ciò, all’interno della struttura non è prevista una zona dedicata ai minori non accompagnati che pure sono presenti.

Kljuc e Velecevo

L’atmosfera nella regione di Una Sana, a nord ovest dello stato e al confine con la croazia, è molto cambiata durante l’estate, passando dall’essere particolarmente accogliente all’essere addirittura pericolosa per le persone in transito o in attesa di attraversare il confine, in larga parte per via dell’atteggiamento delle autorità locali e della polizia. Anche la libertà di movimento all’interno della regione è stata limitata, tanto che le persone non possono spostarsi da Bihac a Velika Kladusa, scelta che ha portato a numerose violazioni dei diritti umani in campo legale come ad esempio la pratica di far scendere da autobus e treni i migranti in arrivo da Sarajevo per forzarli a ritornare indietro (a proprie spese) per evitare l’arrivo di nuove persone nella regione. Alcune persone sono state respinte al di fuori della regione, nei pressi della cittadina di Kljuc. Velecevo, allo stesso modo, è diventata una sorta di frontiera interna dove la polizia ferma e respinge i migranti in transito ufficialmente “per gestire i flussi migratori”. Il luogo dove i migranti vengono fermati e lasciati dalla polizia non offre nessun tipo di riparo e solo la Croce Rossa e alcuni volontari internazionali offrono supporto alle persone presenti sul luogo. Nell’area di Velika Kladusa le persone che si sono offerte di ospitare migranti nelle proprie abitazioni sono state minacciate di multe e sanzioni da parte delle autorità in un clima che rende impossibile collaborazione e solidarietà.

Ci sarebbero ancora mille informazioni da riportare, numeri da richiamare e riflessioni da proporre ma sono sicuro che tutte queste righe siano già abbastanza per riuscire a chiarirsi un po’ le idee su quello che ci sta succedendo intorno a davvero pochi chilometri di distanza. Penso davvero che riuscire ad informarsi e avere lo stimolo, la voglia e l’impegno necessari per farlo in modo adeguato sia lo strumento migliore per andare al cuore di una faccenda ed evitare di costruire falsi miti ben lontani dalla realtà. Ogni giorno che passo qui tra Bosnia e Serbia a contatto diretto con la realtà della questione migratoria, imparo qualcosa di nuovo, scopro sfaccettature che non prima d’oggi non avevo considerato e conosco situazioni prima sconosciute sia per quanto riguarda la situazione politica e il contesto dei paesi in cui mi trovo, sia per quel che invece riguarda le persone con cui sto lavorando e le esperienze che queste si trovano ad affrontare. Spesso mi capita di ascoltare o parlare con persone che si costruiscono un’opinione a partire da alcuni slogan completamente vuoti di significato e mi stupisce scoprire che più siamo impreparati su un argomento più siamo propensi a sostenere ad ogni costo la nostra visione delle cose, senza considerare la possibilità che le cose stiano diversamente. Probabilmente è per via della paura che discutere con qualcuno che ha qualcosa da dirci e ne sa più di noi ci possa mettere di fronte alla nostra inadeguatezza o impreparazione. Forse dovremmo cercare di uscire dall’ottica secondo la quale non conoscere, o conoscere meno di qualcun altro, sia qualcosa di negativo, da nascondere quasi come fosse una debolezza, anche a costo di difendere strenuamente posizioni fondate sull’assenza di conoscenza, così da cominciare a considerare in senso positivo il confronto, il dialogo, il fatto che qualcuno abbia qualcosa da insegnarci. Mi viene da pensare che questo abbia delle profonde ripercussioni sul mondo in cui viviamo, sulla politica che ci riguarda tutti i giorni, perché probabilmente la paura di sembrare inadeguati e di passare per qualcuno che non sa le cose ci porta ad alzare la voce per coprire quella di chi invece non deve nascondersi perché effettivamente sa di cosa sta parlando e di conseguenza a ricercare nel mondo della politica un rappresentante che sia in grado di gridare più forte di tutti, di non farsi insegnare niente da nessuno, che non ha bisogno di discutere delle cose e ascoltare le opinioni degli altri, un rappresentante che in questo modo giustifichi il nostro comportamento quotidiano.

Spero che queste righe possano essere un modo per metterci in contatto, creare una rete, comunicare e scambiare informazioni per creare o accrescere quella che viene definita coscienza collettiva perché credo davvero che gli individui possano fare la differenza con le proprie azioni, siano esse un lavoro vero e proprio sul campo o anche solo uno scambio di informazioni. Ho scelto di smettere di credere che una goccia in un oceano non cambi assolutamente niente, perché il cambiamento all’interno di un gruppo di persone nasce dall’azione dei singoli individui e si sviluppa attraverso la condivisione comunitaria e se state leggendo queste righe vuol dire che anche voi fate parte insieme a me di un cambiamento.

Spero di riuscire a scrivere nei prossimi giorni per raccontarvi al più presto del nuovo progetto a cui sto lavorando con l’associazione qui a Belgrado!

A presto,

Davide