È passato molto tempo dall’ultima volta che ci siamo sentiti; mi spiace e vi chiedo scusa per questa assenza. Penso che in parte sia dovuta al fatto che sono tornato a casa in pianta “semi-stabile” (sul breve periodo eh, non penserete che me ne starò fermo qui vero?) e che mi sia immerso di nuovo nella vita della metropoli milanese, seppur con un’avventura del tutto nuova ed inaspettatamente sorprendente. D’altra parte però, se devo essere sincero con voi e con me stesso, penso che sia stato particolarmente difficile buttare giù due parole sulla mia ultima esperienza in Grecia; ritornare in quel paese e lavorare nello stesso contesto che ha avviato questo mio percorso di vita qualche anno fa, ha fatto riaffiorare in me immagini e sensazioni estremamente intense, in certi casi legate a traumi che non ho ancora elaborato del tutto. Vi affido le mie parole, cariche di quello che mi ha dato questa esperienza e cariche di qualcosa che mi porto dietro e dentro da ormai qualche anno; sono sicuro che anche questo mi aiuterà.
Suonano entrambi i telefoni nella stanza, con la suoneria a tutto volume. Ci alziamo di scatto, prendo in mano il telefono e quasi contemporaneamente guardo l’ora e leggo il messaggio che abbiamo ricevuto.
Sono le quattro e mezza del mattino.
Un nuovo sbarco.
Prendo al volo vestiti, badge di riconoscimento, acqua, qualche biscotto e le chiavi, e ci incamminiamo un po’ nervosi e un po’ di fretta verso il furgone che ci aspetta carico a due passi da dove dormiamo con tutto il necessario per recarci allo sbarco per l’assistenza. Arriva qualche altro messaggio dal leader del team che è in servizio questa notte per prestare assistenza e portare acqua, cibo e vestiti a chi sbarca sull’isola di Chios in arrivo dalla vicinissima Turchia. Lo sbarco è avvenuto nel nord dell’isola; saranno probabilmente somali penso tra me e me, e lanciando uno sguardo a Laura, seduta a fianco a me a darmi indicazioni su dove andare e tenermi aggiornato mentre guido, incrocio il suo sguardo che sembra leggere esattamente quello che sto pensando. Un lungo sospiro con lo sguardo che torna alla strada piena di curve che risale la costa mozzafiato dell’isola e in sottofondo solo il rumore di questo furgone un po’ malandato ma che in fin dei conti fa il suo lavoro e in fondo, lo ammetto, mi piace anche.
Nell’aria c’è un gran silenzio, pesante, che accompagna qualche primo timido raggio di sole, ma posso giurare di riuscire quasi a sentire i nostri pensieri che si rincorrono frenetici. Non parliamo, è come se il peso della situazione impedisse al suono delle parole di pendere forma. È complicato riuscire a spiegare cosa mi passasse per la testa in quei momenti, sempre diversi l’uno dall’altro nonostante lo schema quasi ricorrente: un misto di preoccupazione, desolato sconforto, attimi in cui mi si affollavano in testa mille immagini di volti, di scene già viste, di scene soltanto immaginate o ascoltate in qualche racconto. Ogni battito di ciglia cambia l’immagine che si fissa così intensamente nella mia testa come in una raffica di diapositive. Poi mille domande su quello che stavamo facendo, su come lo stavamo facendo, su ciò che andava bene e ciò che invece non funzionava, sulla piccola isola, in Grecia e in questo strano mondo; e quindi quella stretta al cuore, quasi un vuoto, il salto di un battito, che ancora mi torna a trovare ogni tanto, quando realizzavo l’incapacità, la complicatezza, l’ingiustizia, la difficoltà nonostante la volontà spassionata, la frustrazione e il dolore, tutto concentrato in quel salto di battito. Cerco il suo sguardo e la sua mano si posa sulla mia mentre cerco di ingranare questa terza che non vuole mai saperne di entrare al primo colpo. Arriva la calma, con la luce dell’alba che illumina il paesaggio pazzesco di quest’isola greca, e sempre in un silenzio quasi religioso, condiviso e molto intimo, ci prepariamo, lasciamo andare tutto, i pensieri, le preoccupazioni, la stanchezza e lo stress accumulato e cominciamo a prepararci per il lavoro che dovremo fare di lì a poco.
Riprendo metaforicamente in mano la tastiera del mio pc per scrivervi, quando sono ormai passati molti mesi da quando sono tornato da Chios, una piccola isola della Grecia al confine con la Turchia, dove ho lavorato insieme a CESRT, un’associazione locale che con il supporto dell’ONG tedesca Offene Arme si occupa di prima assistenza agli sbarchi di migranti insieme al team medico di SMH e alla polizia portuale. Oltre agli sbarchi l’associazione svolge attività ricreative con i bambini all’interno dell’unico campo profughi dell’isola tre volte alla settimana, gestisce un magazzino dove riceve donazioni e acquista vestiti per l’assistenza agli sbarchi oltre a collaborare con altri magazzini delle vicine isole di Samos e Lesvos; inoltre, l’associazione gestisce un centro diurno nei pressi del campo dove circa un centinaio di studenti ricevono lezioni di lingua e svolgono altre attività.
È stato un mese intenso come sempre, frenetico come non può non essere, passato lavorando in un’associazione di pochi volontari, sempre di corsa qua e là cercando di prevedere e programmare e riparando sempre a qualche imprevisto. È stato anche un mese pieno di gioie, di incontri e di scambi, di discussioni e di conversazioni, un mese importante e che mi ha anche lanciato verso questo nuovo anno che mi ha visto a Milano, un mese di immagini che mi scorrono davanti agli occhi mentre scrivo. È stato anche un mese difficile perché tornare in Grecia, dove per me ha avuto un po’ tutto inizio nel 2016, mi ha sbattuto inevitabilmente in faccia una realtà, quella dell’assistenza ai migranti e ai profughi, che si muove a velocità estremamente rallentata con qualche pausa e anche qualche passo indietro. È stato un mese che ha riaperto molte porte dentro di me e anche qualche ferita e mai come in questo mese, dall’esatto istante in cui ho messo piede nel campo dove abbiamo fatto attività con i bambini, ho rivissuto momenti, situazioni ed emozioni di quell’anno con cui ammetto di dover ancora far bene i conti.
Il servizio che svolge CESRT è fondamentale; è infatti l’unica associazione che (sempre cooperando con il team medico) si occupa di fornire un servizio di prima assistenza 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 ai migranti che sbarcano sull’isola, sia che siano trasportati al porto dalle motovedette della polizia di frontiera, sia che approdino direttamente con i gommoni sulle diverse spiagge dell’isola, da nord a sud. I volontari che svolgono le altre funzioni e attività durante la giornata sono organizzati in team di circa 6 persone che, a rotazione, ricoprono turni di reperibilità per gli sbarchi dandosi il cambio ogni mattina in occasione del meeting mattutino con tutti gli altri intorno alle ore 8. In questo modo c’è sempre un team pronto a rispondere alle chiamate della polizia mentre al tempo stesso gli altri volontari portano avanti le attività al centro linguistico e gestiscono il magazzino.
Arriviamo alla spiaggia dello sbarco, dove siamo già stati altre volte, e troviamo ad aspettarci la macchina con il team leader e gli altri volontari. Mentre la squadra medica sta facendo i primi controlli di routine è ora che prepariamo tutto per la nostra distribuzione. Tiro il freno a mano e giro la chiave. Ci siamo. Di nuovo. A ciascuno vengono assegnati i propri ruoli e subito ci muoviamo velocemente ognuno sapendo cosa fare, si apre il portellone laterale del furgone e cominciamo a sistemare a terra i vari sacconi contenenti i pacchi di vestiti pronti e divisi per genere, taglia e, nel caso dei bambini, anche per fasce d’età. Uomo e donna S, M, L, XL, XXL; adolescenti maschi e femmine; bambini maschi e femmine dai 6 ai 12 anni con una sezione per le taglie più grandi e una per quelle più piccole e lo stesso per bambini dai 2 ai 5 anni; bambini da 0 a 24 mesi; pacchi speciali per donne incinte, scarpe nel caso servano, giochi per i bambini e infine acqua e degli snack per tutti (anche adatti ai numerosi diabetici) oltre che coperte di emergenza e più pesanti. Tutto è pronto e organizzato e mi viene da pensare alle mille ore di lavoro in magazzino per preparare tutti i diversi pacchi, misurare le taglie, smistare le donazioni e riordinare tutto. Appena il team medico ci dà l’ok, un paio di persone cominciano a distribuire acqua a tutti mentre altre due procedono con gli snack per poi cominciare a distribuire i pacchi di vestiti sotto la guida e seguendo le indicazioni del volontario che gestisce la squadra.
Aspettate, ho dimenticato qualcosa per strada.
Quando arriviamo alla spiaggia il team medico ci informa che molte delle persone che sono appena sbarcate sono completamente fradice e molto infreddolite. Ci servono coperte. Un po’ di tira e molla con la polizia per poter cominciare a distribuire quantomeno le coperte anche se il team medico non ha ancora finito e solo dopo un po’ di insistenza possiamo procedere.
Nel frattempo, uno degli infermieri ci comunica che dobbiamo assolutamente fare posto ad una delle donne che ha con sé il figlio partorito solo qualche giorno prima, appena prima di salire su quel gommone. In ospedale? Ho forti dubbi. Svuotiamo completamente il furgone e facciamo posto alla madre con il neonato così che trovino un po’ di tranquillità e possano ricevere assistenza migliore. Ah, ecco forse mi sono dimenticato di dirvi che il team medico non ha un’ambulanza, la può chiamare solo in caso di emergenze essendo una solo e dedicata a tutta l’isola.
Ci muoviamo veloci tra le persone sedute più o meno ordinatamente nel piazzale del piccolo porticciolo, cercando di capire se qualcuno abbia bisogno di qualcosa in particolare, cercando rispettosamente uno sguardo di intesa che spezzi le barriere che ci separano. A volte cerco di immaginare, ben conscio di non potermene rendere conto davvero, cosa si possa provare ad essere dall’altra parte. Immagino la stanchezza di un viaggio che sarà sembrato infinito, immagino la paura di quello che è passato e di quello che sta arrivando, immagino la diffidenza e il timore nei confronti della polizia, dei medici, di questi ragazzi che con le loro pettorine si muovono veloci distribuendo una cosa dopo l’altra. Immagino la confusione di non capire cosa stia succedendo, la frustrazione di non volere e non riuscire a chiedere aiuto, la rabbia, il sollievo, il dolore.
Cerchiamo di avere tatto e trattare ogni persona con il massimo della dignità, è una priorità assoluta, ma al tempo stesso dobbiamo fare il più in fretta possibile perché sappiamo che l’autobus della polizia arriverà presto per trasportare tutti al campo e non aspetterà certo che abbiamo finito di distribuire tutto prima di partire. L’autobus è sempre lo stesso, ad ogni sbarco. Circa 25/30 posti, non di più, e ovviamente mai abbastanza per le persone presenti, ma, nonostante ciò, per qualche motivo non si può mai fare più di un viaggio verso il campo quindi tutti devono salire e finiti i posti a sedere beh, chi rimane resta in piedi. Così, stipati in quello che ben poco ha di diverso dai camion per il trasporto di animali che ogni tanto si incrociano in autostrada, le persone appena sbarcate vengono traportate verso il campo di Vial per procedere con il riconoscimento e la registrazione.
La situazione sull’isola di Chios e nel relativo campo è precipitata rovinosamente negli ultimi mesi, come immagino alcuni di voi già sapranno o avranno sentito rapidamente in qualche telegiornale. Non si può dire che sia mai stata idilliaca ma, così come per le vicine isole di Lesvos e Samos, questi ultimi mesi hanno lasciato un segno indelebile nelle vite dei profughi, degli abitanti dell’isola e all’isola stessa, creando ferite che non si rimargineranno e portando allo stremo situazioni già precarie. Solo qualche numero per farvi un’idea (i numeri variano in continuazione ma gli ordini di grandezza più o meno sono sempre gli stessi, perdonatemi per le imprecisioni): il campo è stato progettato per ospitare circa un migliaio di persone, al momento ne ospita circa 6 mila; 1 medico a disposizione dell’intero campo, 2 psicologi, acqua disponibile a giorni alterni o solo in determinate fasce orarie, elettricità praticamente inesistente. Penso che la discrepanza tra il numero di persone presenti e quelle previste al momento della costruzione del campo vi possa far immaginare la condizione delle latrine e del sistema fognario, ovviamente anche la disponibilità di tende è sempre inadeguata così come lo spazio fisico occupabile. Insomma, nel pieno della mia lucidità e con tutto lo spirito critico che riesco a raccogliere riassumerei con: “un disastro”. Come dico sempre: se non si arriva già traumatizzati dal viaggio percorso fin qui, non posso che essere certo che non si lasci l’isola senza traumi psicologici e psichici; oltre a quelli fisici ovviamente. No, non esagero.
Tutti sono stati caricati sull’autobus e si dirigono ormai verso il campo. Cala un po’ la tensione e ci prendiamo un attimo per riposare e mangiare qualcosa. Ricarichiamo i sacconi con quello che è avanzato sul furgoncino e ci mettiamo a pulire l’area. Il capogruppo fa il punto della situazione, butta giù due numeri su quello che abbiamo distribuito e li comunica alla direttrice dell’associazione che a quest’ora sarà sicuramente al magazzino. Alcuni volontari della squadra riempiono dei sacconi con tutti i giubbotti salvagente abbandonati sul luogo dello sbarco, sacchi e sacchi di giubbotti a volte asciutti e altre volte inzuppati di acqua. Non è semplice. A volte mi rendo conto che molte delle azioni che compiamo ripetutamente durante gli sbarchi ci sembrano ormai scontate, parte di una routine che ripetiamo quasi meccanicamente, con attenzione ma anche con un certo distacco; penso sia un modo per proteggersi inconsciamente da quei gesti e da quelle immagini che non sono altro che piccoli traumi anche per noi che lavoriamo. A volte però, stai raccogliendo l’ennesimo giubbotto di salvataggio, così come hai già fatto mille volte prima, e ti blocchi; ti guardi intorno, ritorni con lo sguardo a quel giubbotto fradicio, e ti rendi conto di quello che è appena successo, è come se di colpo venissi travolto con una forza impressionante dall’onda inarrestabile della realtà delle cose; tutti i pensieri e le immagini si concentrano in un gigantesco masso che ti si appoggia sulla bocca dello stomaco; fai fatica a respirare, non capisci, ti senti impotente, arrabbiato, ti viene da piangere. Respiri. Respiri. Cerchi lo sguardo di qualcuno accanto a te, un sorriso, uno scherzo, una battuta ti aiutano a rimetterti un po’ in piedi e lasciare a terra quel masso gigantesco. Sai bene però, che tornerà.
Giro con il mio sacco nero e raccolgo qualche confezione di brioche, qualche bottiglietta, qualche altro rifiuto e qualche vestito fradicio abbandonato dopo lo sbarco, mi fa sempre una certa impressione raccogliere questi vestiti. Me ne vado in giro un po’ in solitaria, per digerire quello che è appena successo, scambio qualche battuta con gli altri e ogni tanto mi avvicino per vedere se è tutto a posto. Faccio altri due passi ed eccolo lì. Maledetto gommone. Ogni volta penso “ah la prossima volta non mi farà così impressione” oppure “aaah la prossima volta non lo degno neanche di uno sguardo” o ancora “dai ormai ne abbiamo visti un po’ Davide, non è la fine del mondo”. E invece no, maledetto gommone abbandonato dopo lo sbarco. Ogni volta che ci ritroviamo faccia a faccia mi fermo, lo scruto, lo analizzo: i tagli riparati con nastro isolante, le parti gonfie e quelle sgonfie, pezzi di cibo, pezzi di vestiti, a volte i resti di un viaggio che ti costringe per ore, la solita puzza, quel misto di plastica, acqua di mare e una serie di altri odori. Lo guardo. Mi guarda. Ci risiamo, non posso farne a meno e comincio a provare a metterci dentro tutte le persone che abbiamo soccorso; me le immagino, provo a spostarle un pochino, a stringerle, a pressarle un poco ma mai una volta che riesco a farcele stare tutte. Com’è possibile che ci siano state tutte insieme su questo gommone. Come?
Aspetto il capogruppo e ci mettiamo a tagliarlo a pezzi per poi buttarlo nel vicino cassonetto. Fine.
Ci rimettiamo in macchina e io rimetto in moto il furgoncino. Il viaggio di ritorno è un po’ un misto di emozioni che dipende da com’è andato lo sbarco, da come ci sentiamo e dai pensieri del momento. La tensione ha lasciato il passo ad altre emozioni più blande, alcune positive ed altre negative. Scambiamo due parole e cerchiamo di tirarci un po’ insieme mentre ci dirigiamo verso il magazzino; sono le sei e mezza quindi una volta arrivati mangeremo qualcosa e ci fermeremo direttamente per iniziare la giornata e fare il cambio turno. Caffè, panino. Arriviamo e svuotiamo completamente macchina e furgoncino per poi ricaricarli con il carico già pronto in magazzino. 7:00. Il sole scalda l’entrata del magazzino, sistemiamo un po’ i sacchi, facciamo due chiacchiere e aspettiamo che ci raggiungano gli altri volontari. Chiudo il cigolante bagagliaio del furgone e tiro un sospiro di sollievo pensando “anche questa è andata” e in quel preciso istante i nostri telefoni risuonano all’unisono.
“Cazzo”, penso.
Nuovo sbarco; ci rimettiamo in marcia.
Sono tornato a casa da un po’ di tempo ormai e sono quasi in partenza per un altro viaggio a dire la verità, dopo alcuni mesi di stop più o meno forzato durante i quali mi sono successe mille altre cose; ma riprendere in mano questo documento e riaprire questo cassetto nella mia testa mi ha un po’ travolto. Non è che alla fine di ogni esperienza io chiuda tutto da qualche parte e me ne dimentichi, anzi, penso che ora ancor più che prima tutte queste esperienze siano parte della mia quotidianità, e ci torno su molto spesso per un motivo o per l’altro, di proposito o meno; ma scriverne e perdermici dentro mi ribalta sempre sottosopra.
Mi rendo conto che nonostante la lunghezza di quello che ho scritto ci sarebbero mille cose che vorrei dirvi, episodi che vorrei raccontarvi, emozioni e pensieri.
Vorrei parlarvi delle attività coi bambini nel campo;
vorrei parlarvi dei visi che ho incrociato agli sbarchi;
vorrei parlarvi della mia vita con gli altri ragazzi, delle persone che ho incontrato;
vorrei parlarvi di cosa ho pensato, delle idee che ho avuto e delle riflessioni in solitaria o in compagnia;
vorrei parlarvi della mia paura;
vorrei parlarvi di come è cambiata la mia vita anche questa volta, del dolore, della fragilità e della gioia e dell’amore immenso che ho provato;
vorrei parlarvi degli orrori di quel campo, della violenza, degli stupri, dei traumi di cui a casa, purtroppo, non abbiamo la minima idea.
Ci sarà un momento per fare due chiacchiere, spero, e magari più avanti riprenderò in mano questo capitolo pe una piccola “seconda parte”, ma ora non posso che essere felice di aver condiviso con voi un piccolo pezzetto di questa indescrivibile esperienza. Ogni volta che scrivo mi immagino di essere faccia a faccia con te che stai leggendo, e ogni volta spero che le mie parole accendano una piccola lucina nella tua testa, che si muova un qualcosa anche dentro di te così come si muove dentro di me. Non pretendo di spostare pianeti, ti chiedo di tenere accesa quella lucina, di pensarci ogni tanto, di portarmi con te e di ricordarti che c’è qualcos’altro là fuori che spesso non possiamo nemmeno immaginare ma che dobbiamo, dobbiamo, considerare.
C’è qualcos’altro là fuori.
A presto,
Davide