È ormai più di un mese che sono partito ed è arrivato il momento di provare a fare il punto della situazione.
Prima di tornare a parlare del lavoro che sto continuando a fare con Collective Aid qui in Bosnia e dei piani per i prossimi mesi vorrei però condividere con te che stai leggendo queste righe qualche pensiero un po’ più personale, legato all’esperienza che sto facendo, alle persone che ho incontrato e con cui vivo a stretto contatto e a tutto ciò che il contesto in cui mi trovo mi porta a pensare.
Molto spesso non è semplice riuscire a spiegarmi quello che provo e a volte mi ci vuole del tempo per riuscire a capire il disegno o le motivazioni che si nascondono dietro le sensazioni che mi accompagnano durante le mie giornate; per questo motivo provo a buttare giù qualche riga per cercare di fare un po’ di chiarezza.
Partire per un’esperienza di volontariato come quella che sto vivendo qui a Sarajevo ti fa precipitare in una realtà completamente nuova, ricca di stimoli che non sei abituato a ricevere e che di conseguenza portano a sensazioni e reazioni che spesso non si è in grado di gestire al meglio.
È qualcosa di diverso dall’essere semplicemente lontano da casa, è come se molti dei punti di riferimento su cui sei abituato a fare affidamento cambiassero, alcuni lentamente e altri in un istante, e ti ritrovassi a cercare, un po’ a tentoni, dei nuovi appigli su cui costruire una nuova quotidianità. Questo cambiamento mi ha portato, prima in Grecia e ancor più qui in Bosnia, a rimettere molto in discussione me stesso, le mie convinzioni e le mie idee.
Nell’ultimo mese mi sono ritrovato spesso faccia a faccia con me stesso, immerso in una conversazione talvolta scomoda, spoglia di inutili convenevoli, libera da condizionamenti esterni. Una conversazione intima, complicata, dura da affrontare, in cui sono riuscito a pormi interrogativi che se ne stavano nascosti da qualche parte da molto tempo e a darmi una risposta o quanto meno cominciare a rifletterci. Al tempo stesso questo tuffo profondo verso l’interno mi ha inevitabilmente portato a pormi delle domande che invece mai mi sarei aspettato e che mi hanno lasciato un po’ perplesso e un po’ stupito.
Giorno dopo giorno l’ambiente in cui vivo, le persone con cui sono a contatto e le forti esperienze della quotidianità mi hanno permesso di spostare, uno ad uno, gli strati esterni e a liberarmi di tutti quei gusci che, un po’ per proteggerci ma soprattutto per via dei condizionamenti cui siamo sottoposti, ci portano a costruire una persona e una personalità diversa da quella che siamo veramente.
Non è facile.
Non è facile davvero capire che alcuni atteggiamenti, alcuni modi di pensare e agire, sono frutto di una costruzione esterna che spesso non ci accorgiamo nemmeno di mettere in atto; e quando ti trovi spogliato di questi strati, a contatto con ciò che sei veramente, nudo davanti a una parte di te che spesso, consciamente o inconsciamente, finisci con il nascondere, in quel momento un insieme di emozioni si affacciano e si mischiano perché è spaventoso, incerto e confuso ma allo stesso tempo sincero ed emozionante.
Il prezzo da pagare per questa sorta di analisi è dato da momenti difficili in cui ti senti un po’ perso in un mare di pensieri, in cui non sai bene chi sei o dove stai andando, ma se considero quello che si guadagna in termini di consapevolezza e conoscenza di se stessi posso dire che ne vale senz’altro la pena.
Sono certo che tutto questo non potrebbe succedere se non mi trovassi proprio dove sono ora e a contatto con le persone con cui sto condividendo questa esperienza, con le quali si crea un legame difficile da capire, un legame forte che non si è abituati a gestire perché frutto non di una lenta conoscenza graduale, ma della condivisione diretta di esperienze profondamente intense. In pochi giorni ti ritrovi a condividere emozioni e sensazioni, problemi e gioie, momenti di lavoro intenso e di rilassatezza in un contesto così particolare da instaurare un legame veramente profondo con persone che ancora non conosci ma con le quali vivi momenti di intimità inaspettati, senza filtri.
Questi giorni sono stati una continua altalena di emozioni, un alternarsi incessante di momenti di estrema gioia e di sconforto profondo, di paura, crisi, felicità e realizzazione, perché il lavoro nel quale ci troviamo immersi passa in un attimo dalla banalità dell’atto del cucinare alla consapevolezza del luogo in cui ti trovi e delle persone con cui sei a contatto; così, mentre tagli l’ennesima cipolla, in un attimo ti rendi conto che ti trovi in un container all’interno di un campo profughi in cui centinaia di persone sono intrappolate in un limbo di incertezza e quindi ti fermi a guardare proprio quella cipolla e non capisci più bene se stai semplicemente tagliando della verdura o provando a cambiare qualcosa che non funziona in questa situazione così complicata;
così, dopo una lunga mattinata di preparazione in cui hai camminato dalla cucina al deposito, tagliato, tritato, lavato, pulito, fatto un po’ di stretching per quella schiena che ogni tanto si fa sentire, spostato contenitori e contenitori di cibo, preparato piatti e cucchiai per la distribuzione e distribuito 450 porzioni di un pranzo che ti fa sentire davvero soddisfatto del lavoro che hai fatto, sei pronto a consegnare l’ennesimo piatto.
La persona che ti trovi davanti lo guarda, con uno sguardo che tradisce tutta la sua frustrazione, la desolazione, la difficoltà di una vita che non possiamo nemmeno immaginare, e decide di non prenderlo.
E se ne va, senza prendere quel piatto in cui tu hai messo tutto quello che sei riuscito a tirare fuori da te stesso, il lavoro delle tue mani, il tuo tempo, la tua volontà di provare a fare la differenza, la voglia di essere parte di qualcosa per qualcuno. In quel momento ti crolla il mondo addosso, a te che di problemi ne hai davvero pochi, e tutta l’energia e la gioia delle ore passate, pure emozioni positive, lascia spazio con una semplicità disarmante ad un doloroso sconforto.
Allo stesso modo però, dopo aver finito la distribuzione, ti si avvicinano padre e figlio, che con la massima serenità ti guardano e ti ringraziano, con la mano sul cuore, per avergli preparato proprio quel piatto e in un momento, con un semplice sguardo e due parole ti senti sopraffatto dal un calore che mai avevi provato prima e, incredulo, non riesci a smettere di sorridere, fuori e dentro di te, e dimentichi tutta la stanchezza che hai accumulato nel lavoro delle scorse ore e ti senti così leggero!
Momenti come questi hanno riempito le mie giornate nell’ultimo mese e se da un lato non è stato facile riuscire a gestire un carico di emozioni così travolgenti, dall’altro questo ha aperto la porta a stimoli e riflessioni che mai mi sarei aspettato, dandomi la possibilità di scoprire nuove facce di innumerevoli medaglie e lasciandomi al tempo stesso lo spazio e il tempo per elaborare ciascuna sensazione.
Non mi risulta semplice riuscire a mettere nero su bianco queste riflessioni e nella testa si affollano mille immagini di ciò che mi è capitato, dai momenti passati nella cucina alle distribuzioni in strada, dal tempo speso a ridere e scherzare davanti a una birra ai crolli emotivi inaspettati che mi hanno colto alla sprovvista o che hanno così rapidamente cambiato l’espressione sul viso del ragazzo accanto a me, che come tutti noi che siamo qui, cerca di gestire delle emozioni che, spesso, non ci si riesce a spiegare.
Forse queste righe arrivano un po’ inaspettate e non sono in linea con quello che ho scritto fino ad ora, ma anche questa è una parte importante di questo mio strano filo del discorso e mi fa piacere riuscire a condividerla con voi.
A presto,
Davide